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“La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture”.

 

 

 

Con queste parole Papa Francesco chiudeva il documento Aperuit illis, con cui il 30 settembre 2019 istituiva per tutta la Chiesa cattolica questa ricorrenza singolare: da allora, ogni terza domenica del tempo ordinario, quindi nel mese di gennaio, si celebrerà la Parola di Dio.

Qualcuno si è chiesto: ma c’è proprio bisogno di mettere a tema la Parola di Dio, quando ogni liturgia contiene un brano tratto dalla Sacra Scrittura? Cosa aggiunge questa domenica a quello che già ogni credente vive nella sua dinamica di fede ordinaria? Queste domande sono legittime e meritano la dovuta attenzione per evitare di trovarsi in un vicolo cieco, da cui sarebbe scomodo uscire.

In realtà, una domanda analoga potrebbe essere sollevata anche per la solennità della Santissima Trinità: se ogni preghiera comincia con un segno di croce, cioè “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, che bisogno c’è di dedicare una domenica specifica alla Trinità?

Forse per impostare una risposta adeguata a queste domande è utile il paragone con una pratica fisica elementare: il respiro. Ogni essere umano, anzi ogni essere animale vivente, inizia a respirare con naturalezza sin dalla nascita. Nessuno ci ha insegnato a respirare: la medicina spiega che si tratta di una operazione involontaria, dettata direttamente dal cervello ai muscoli e agli organi preposti. Eppure, ci sono corsi dedicati specificamente all’arte della respirazione, training di apnea per i sub, scuole di respirazione diaframmatica per i cantanti lirici, logopedia per le persone che devono riprendere a modulare la voce e persino corsi di meditazione che iniziano con tecniche di respirazione per aumentare la concentrazione.

Se è dunque vero che respirare è un atto naturale, è altrettanto vero che può diventare un’operazione compiuta con consapevolezza e persino con piacere. La celebrazione della Domenica della Parola va vissuta in quest’ottica: il credente ha la possibilità di fermarsi e di apprezzare quel grande dono di Dio, che rischia a volte di sembrare scontato o di poco valore.

Potrebbe accadere infatti che non si sia coscienti del fatto stesso che Dio ci ha rivolto la parola. Eppure, la spiritualità biblica si fonda su questo presupposto: Dio ha parlato per primo, ancor prima, cioè, che glielo chiedessimo o che ci meritassimo di interloquire con lui. In questo senso, la preghiera per noi cristiani più che una struggente invocazione, somiglia alla risposta garbata ad un saluto. In secondo luogo, potremmo finire per dimenticare che Dio parla non per imporre se stesso o notificare un comando, ma per creare una relazione di comunione. Il Concilio, a questo proposito, dice con mirabile efficacia: “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici” (Dei Verbum, 2). Infine, potremmo non accorgerci che la Chiesa ci propone le pagine della Sacra Scrittura perché lì sono custodite le radici più profonde della fede: in quel “diario di famiglia” ci sono le storie, a volte dolorose a volte esaltanti, di chi ci ha preceduto e ci fa da maestro. Conoscere e interiorizzare quelle storie significa continuare a crescere nella vera fede, dopo essersi abbeverati direttamente alla fonte.

In quest’ottica la celebrazione della Domenica della Parola di Dio è utile come esercizio interiore: per riscoprire la bellezza e l’importanza della familiarità con la Sacra Scrittura, che è per l’anima del credente come il respiro per il corpo.

 

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