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Ciò che solitamente affascina visitatori e turisti sono da sempre le strette strade, gli antichi vicoli, che come labirinto si disperdono nelle città.

 

 

 

Ancor più il mistero s'infittisce per quelle viuzze inesplorate, dimenticate, che al loro interno custodiscono secolari chiese, piccoli conventi, il cui compito è quello di fare da guardia ai passanti nel buio della notte; grandiosi palazzi nobiliari le cui finestre, balconi, portoni e pareti sprigionano il profumo dei tempi che furono, oramai passati con le loro tradizioni e contraddizioni. Non vale meno la nostra amata città, dove ogni sua strada, ogni pietra antica potrebbe raccontare una storia diversa per ogni notte, al pari di un dolce nonno che, per far addormentare il pargolo, narra una fiaba mista ai vecchi ricordi e alle infrante illusioni e speranze. In una di queste vie vi è un piccolo arco, forse il meno conosciuto, trascurato dagli occhi dei molti: l'Arco di Prato.

Il suo nome deriva da un illustre personaggio della storia leccese, Fra Leonardo Prato, capitano dell'Ordine dei Gerosolomitani. Egli si distinse nella battaglia di Rodi contro i turchi, per poi essere al servizio del Santo Padre alla guida delle truppe papaline contri i francesi. Per onorare la sua famiglia, all'ingresso della sua loggia, fece costruire un'imponente e profonda arcata. Sui due pennacchi laterali, seppur sbiaditi dal correre dei secoli e oggi dunque poco leggibili, sono presenti in tono quanto decorativo, tanto celebrativo, gli stemmi araldici della sua nobile casata.

Tutta la struttura è coronata da una balconata elegante in stile classico i cui balaustrini sono alternati dalla forma tonteggiante e squadrata che ne conferisce maggiore armonia. Il monumento però non solo può vantare una nobile origine, ma anche un'Augusta visita: quella di Ferdinando I delle Due Sicilie. Difatti l'illustre sovrano passò da Lecce per il matrimonio del figlio ed erede al trono Francesco con Maria Clementina d'Asburgo. Ferdinando notò su fervente consiglio del primo cittadino questo arco, quasi fosse il Santo Graal, tanto che il sovrano rispose: "Me ne fotto". Da quel momento, quasi come una favola la cui fine porta sempre a una morale, il popolo emulando il Borbone, per rispondere con disinteresse usò dire "Arcu de Pratu".

Fabula docet di come una nobile architettura non venga ricordata tanto per le gesta del suo ideatore, bensì per un fine profano. Ecco come le venerande vie, piccole e grandi segnano il solco tra i tempi, il cui destino è inesorabilmente segnato: che il nuovo sovrasti il vecchio.

 

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