Ricordare, testimoniare, non volere dimenticare - anche gli orrori, le vergogne e i soprusi - permette agli individui di crescere, confrontarsi, migliorare e, alle collettività, di non essere sopraffatte e di ripensare agli errori per non ripeterli.
Almeno questo suggerisce il sentimento della speranza che, per definizione, dovrebbe allontanare l’indifferenza e animare chi confida nel valore della memoria storica su cui riflettere, elaborare, ragionare. Che sia buona o cattiva, debole o di ferro, temporanea o imperitura, la memoria è parola latina - proveniente dal greco mneme -, rimasta invariata nella lingua italiana. Ciò non la alleggerisce del carico di significati, indispensabili alla vita psico-fisica di ognuno di noi. La memoria è racchiusa nella mens, mente, dove è evidente la radice men-; una variante è mon-: monitor, suggeritore; monumentum, quel che fa tornare alla mente. Da monere, ricordare, viene moneta: il mezzo di scambio in metallo, coniato dalla Zecca, con cui si appellò Giunone, l’”avvertitrice” del pericolo che i Galli si stavano avvicinando sempre di più a Roma.
Mi intriga il termine memoria e sosto dinanzi a uno dei suoi significati da me preferiti, quello riguardante la tradizione: un patrimonio di saperi, idiomi, rituali, costumi, superstizioni, usi di una popolazione. Tutto ciò, insomma, che sinteticamente viene definito etnografia. E il Salento antico, ne ha a dismisura. Un patrimonio scandagliato da illustri eruditi come, tra tutti, L. G. De Simone (1835-1902), G. Palumbo (1889-1959), G. B. Bronzini (1925-2002), sulla cui scia si sono inseriti molti validi etno-antropologi contemporanei.
Perché ci sia memoria - scrive Nicola Gardini ne Le 10 parole latine -, occorrono cura, studio e devozione.
Speriamo che ci sarà qualcuno che continuerà ad assecondare sempre queste poche, ma fondamentali regole. La letteratura locale è quanto mai ricca e in continuo fermento, supportata dall’interesse giornalistico.
L’uomo, ammonisce Platone, ha conoscenza perché ricorda. Stupefacente la metafora della memoria col blocco di cera dove, se le impronte sono profonde e nitide, i ricordi risultano tanto più chiari e certi. Se si verificano quelle fastidiose “sviste della memoria”, la colpa è da addebitare «alla cattiva qualità della cera, alla vaghezza delle impronte stesse o all’incapacità di far coincidere una certa immagine». (Gardini)
Volere ricordare differenzia la specie o, meglio, la vita umana da quella di qualunque altro essere vivente perché si giunge al ricordo attraverso un procedimento mentale alquanto laborioso.
Aristotele sostiene che si ricorda soltanto il passato e che il ricordo è legato strettamente a un’immagine mentale. Questa è una condizione necessaria alla memoria. Mi attengo all’affermazione. La aggiorno raccontando quanto segue. Alcune mattine, camminando a piedi, costeggio l’imponente edificio della Manifattura tabacchi (Viale della Repubblica), la più grande d’Europa, abbandonata (2010) dopo mezzo secolo di produttività (fu inaugurata nel 1960); proseguo poi lungo via D. Birago incontrando (ai nn. civici 46/48) il Deposito dei tabacchi greggi, in parte progettato dal noto architetto Pierluigi Nervi e inaugurato (1931) da Vittorio Emanuele III! A qualche centinaio di metri trovo un’altra testimonianza legata al tabacco: l’ex convento dei Domenicani (oggi sede dell’Accademia di BB.AA.) dove si cominciò (1812) l’attività di trasformazione dei tabacchi orientali. Di fronte, l’ex Ospedale dello Spirito Santo ha ospitato uffici legati al tabacco. Talvolta allungo il passo fino all’Istituto sperimentale tabacchi, tuttora sede di facoltà universitarie.
Ho citato, non a caso, luoghi ed edifici intrisi di memoria, da salvaguardare, tutelare, trasmettere: verbi carichi di retorica e di menefreghismo. Prove tangibili di quanto la foglia del tabacco durante il suo apice (primo decennio del 1900) abbia risollevato le sorti economiche di un vasto territorio, il Salento, costituito da 97 comuni e 39 frazioni con Lecce capoluogo. Né questo né un acino del grappolo costituito dai citati comuni ha mai sentito l’esigenza né il dovere etico di istituire una Fondazione, un Museo del tabacco perché non andasse perduta una inestimabile eredità umana (innanzitutto), economica e sociale; perché non si dimenticasse che nelle manifatture si formò la figura più significativa della classe operaia organizzata, la tabacchina: protagonista dei primi scioperi per la conquista dei diritti sindacali e la tutela della salute; perché non si distruggesse il materiale cartaceo e le pubblicazioni inerenti la pianta e la coltivazione del tabacco.
Gli anzidetti monumenti non fanno venire alla mente nulla? Non gridano l’abbandono fisico e morale subìto? Ignorarli in quanto segni importantissimi della storia lavorativa e sociale locale, testimonia la colpevole perdurante smemoratezza di molti di noi. Ma si sa. Contro la mancanza di mneme la ragione si annulla. Sfocia nella beffa! Parente prossima dell’indifferenza.