Riprendo il filo del discorso iniziato l’1° dicembre scorso, e osservo che dall’ipotetica voce del latino parlato camminus (di origine celtica), proviene il verbo camminare, spostarsi a piedi, azione che consente di vedere ciò che si attraversa o si costeggia senza alcun filtro deformante della realtà.
Per me è diventato un atto basilare giornaliero. Allerto così i miei occhi. Diventano una cinepresa costantemente accesa. Oltre al cervello, naturalmente. Entrambi registrano: i primi, immagini da archiviare e ricordare; il secondo, riflessioni di come il verbo camminare si presti a trasposizioni figurate diventando sinonimo di procedere, con allusione al progredire dell’azione (il progetto non cammina per difficoltà tecniche), al trascorrere del tempo (la pratica avanza lentamente), in vista di determinati risultati (il suo modo di proseguire è dannoso, controproducente).
Senza volerlo ho riportato proprio quei sinonimi che meglio si adattano alle constatazioni seguenti. Ricordo che la logica che sta dietro a esse, è uno sprone, un invito ad andare avanti con vitalità, non con fiacchezza.
Raggiungo via delle Bombarde, una delle più antiche di Lecce. Noto con piacere che nella sua prima parte e in alcune corti che si diramano, il susseguirsi di b&b le ha tolto quella patina di vecchiume e di trascurato che aveva prima. Grazie all’iniziativa privata la via ha acquisito una connotazione di accoglienza e di decoro. Al termine di essa, invece, appare un esempio tangibile di colpevole abbandono: l’Istituto “G. Garibaldi”, inaugurato nel 1852 e chiuso nel 1983. Da 37 anni giace in perenne agonia!
Non sto qui a ricordare di cosa e di chi è testimonianza per avere ragione di una sua ancora possibile riabilitazione. Fino a quando ciò non accadrà, il tempo lo deteriorerà ulteriormente e costerà di più recuperarlo. Per farne… il solito contenitore culturale? Già troppi ce ne sono in questa città che non fa cultura da decenni. No! Per destinarlo a una fascia di leccesi ignorati: quelli della terza età. I quali, non vorrei sbagliare, non dispongono di un punto di incontro per chiacchierare, ballare, passare il tempo con allegrezza (come diceva E. De Filippo) e non sentire il peso della solitudine che porta automaticamente con sé la senilità.
Del resto, neppure i giovani che vogliono dipingere, ballare, sperimentare, conversare, ritrovarsi tra loro hanno uno spazio in centro dove poterlo fare che non sia il bar. O sì? Mi pare che a Lecce vi sia carenza di questi luoghi/centri aggregativi.
Mi avvicino a casa percorrendo le vie Pappacoda, Pozzuolo e Sozi Carafa, fermandomi dinanzi alle cosiddette “Case minime”: un buon numero di palazzine a due piani, presumo costruite dall’ormai scomparso Iacp intorno agli anni 1960-70 che, per il criterio urbanistico a cui si rifanno, vanno restituite alla storia della città e, quindi, recuperate quanto prima. Ricordo che la storia sta nelle pietre, nel gesto nascosto di chi le ha progettate secondo un criterio formale. Con le palazzine ristrutturate si potrebbe dare vita a un micro-villaggio residenziale, funzionale alla vicina Università. Tra l’altro creerebbe un reddito…che di questi tempi!
Attualmente aleggia un profondo stato di abbandono e di trascuratezza: molti appartamenti sono murati; da altri sono state portate via le ringhiere lasciando a nudo gli ambienti; in qualcuno di essi ci abitano.
All’evidente stato di disfacimento (roba da terzo mondo!) si deve aggiungere: i marciapiedi dissestati, la presenza di lamiere posticce che dividono queste palazzine dai nuovi edifici abitativi sorti alle spalle, i lavori di sistemazione stradale lasciati a metà i quali conferiscono a questo angolo - per nulla nascosto e appartato - un senso di perpetuo abbandono, di perenne incuria che fa il paio col sintomo del disprezzo. Come se questo angolo urbano appartenesse a un “dio minore” e fosse avulso dal resto della città.
Eppure il quartiere San Pio cui appartiene dista poche centinaia di metri da Porta Rudiae cioè dal centro. Nonostante sia densamente popolato e ben servito da ogni tipo di attività commerciale, serpeggia lo stato latente di perifericità. Manca qualcosa che lo faccia sentire meno emarginato. Che cancelli questa sensazione.
Il quadro alquanto desolante è la prova del consueto ordinario modo di fare politica che, bene che vada, quando annuncia l’esistenza di un progetto (edilizio, di riqualificazione, di potenziamento, ecc.) non indica mai una data certa del suo compimento che diventa un punto indefinito sull’agenda degli impegni programmatici/amministrativi. Su di essa le scadenze non sono mai prossime, ma lontanissime. Quasi senza tempo. Quasi oltre il tempo.
Ecco l’esempio del percorso che procede con allusione (e delusione), avanzando tanto lentamente da fermarsi definitivamente per esaurimento. Per mancanza della necessaria vitalità. Oltre che esempio di quanto sia difficile e faticoso udire/ascoltare i bisogni dei concittadini.