Quale rapporto tra mondo virtuale e mondo reale? Anzi, quale “grado di realtà” (se così possiamo dire) si può riconoscere a un mondo - quello virtuale - appunto, fatto di segni che, invece di rimandare alle “cose”, rinviano soltanto a numeri e algoritmi?
I casi di cronaca che riferiscono episodi di dipendenza e di confusione tra realtà a virtualità sembrano aumentare progressivamente e ripropongono con attuale necessità una riflessione spesso ripresa, ma altrettanto spesso abbandonata.
È vero, il mondo del virtuale non si può demonizzare; e nemmeno può essere ritenuto responsabile diretto di quello che di male succede nel mondo.
Ma di fronte al ripetersi di alcuni fenomeni, non ha senso ripetere il solito ritornello: “il problema non è il virtuale ma l’uso che se ne fa”. Non ha senso perché il mondo del virtuale sembra godere di una caratteristica tutta sua. Sicuramente esso non rappresenta soltanto criticità, ma esprime anche risorse. E tuttavia è forse arrivato il momento di farsi consapevoli che mentre le criticità emergono, per così dire, spontaneamente, le risorse hanno bisogno di un percorso formativo, che spesso manca, o che, altrettanto spesso, viene strutturato in modo inadeguato alle esigenze formative che consentono di lucrare i guadagni rappresentati dalla risorsa.
Se diamo uno sguardo alla articolazione dei percorsi di educazione multimediale, non è raro trovarsi di fronte a dinamismi marcatamente orientati alla cosiddetta “alfabetizzazione informatica”. Lo scopo di tali percorsi è quello di mettere il soggetto nella condizione di conoscere e di “usare” i comandi e, più in generale, le risorse messe a disposizione dalla virtualità.
Si moltiplicano, pertanto, le iniziative formative finalizzate a insegnare l’utilizzo di alcuni software, a accedere e creare siti web, a utilizzare l’interattività messa a disposizione dai diversi siti, e così via. Questi percorsi, per quanto plausibili, risentono tuttavia di un limite pervasivo e non sempre evidente: essi non promuovono la consapevolezza di ciò che significano, sul piano personale, interpersonale e sociale, le operazioni che si compiono in quei “mondi”.
Nella virtualità gli incontri vengono sostituiti dai contatti che hanno la pretesa di valere come incontri; le azioni vengono sostituite da “click”che hanno la pretesa di valere come azioni; le immagini fatte di numeri e di algoritimi (cioè di qualcosa di estremamente astratto e etereo) hanno la pretesa di essere considerati “oggetti”.
E di questi esempi se ne potrebbero fare molti altri. In questo dinamismo emerge qualcosa che assomiglia molto da vicino a un equivoco: qualcosa che non ha nulla a che fare con la realtà pretende di valere come realtà; qualcosa di estremamente astratto rivendica il diritto di essere considerato concreto. In queste condizioni non è raro che qualcuno possa arrivare a scambiare a scambiare le interazioni, i contatti, gli oggetti, ecc. come qualcosa di reale, che può valere, cioè, da vita reale. Con il rischio - questo sì, tutt’altro che astratto - di perdere l’esercizio di una facoltà mentale di fondamentale importanza per la vita di tutti i giorni: la capacità di sottoporre le cose al cosiddetto “esame di realtà”.
Ci sono buone ragioni per pensare che nel web si operi una pericolosa scissione tra essere e apparire: anche nelle cose che incarnano universi di valore: si può fare solidarietà senza essere solidali; si possono incontrare gli altri rimanendo centrati su se stessi; si può stare in mezzo agli altri rimanendo chiusi nel proprio piccolo mondo.
La risposta a tutto questo è senz’altro l’educazione; un’educazione che insegni a lucrare le risorse del web. Ma che cosa sia e come debba procedere questa educazione, forse è qualcosa che abbiamo ancora bisogno di chiarire.