È ancora possibile essere “padre” in occidente, dopo circa 50 anni spesi a “uccidere il padre” (come ci chiedeva con insistenza la psicoanalisi freudiana)?
O a definirla superflua (secondo la solita cultura radical chic dell’autonomia a tutti i costi), o a cancellarne la presenza (come nelle leggi sull’aborto), o a renderla facoltativa (in quelle sul matrimonio e l’educazione dei figli), o a ritenerla addirittura un puro costrutto culturale-sociale (secondo le teorie del gender)? In effetti questo clima così ostile ha creato nella nostra società una sorta di oscuramento del padre, di cui è inevitabile pagare le conseguenze.
La prima è che non solo non ci sono più “padri”, ma non ci sono adulti, perché la paternità significa il pieno compimento del cammino dell’adulto.
Se la vita, infatti, è dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato, si diventa adulti quando si sceglie esplicitamente di passare dalla fase passiva della ricezione del dono a quella attiva del dono-di-sé. Adulto è dunque colui che genera, che si prende cura dell’altro, che se ne sente responsabile e custode, che se ne carica peso e debolezza, anche nel male. Berdjaev dice, al riguardo, che Caino ha ucciso Abele non quando l’ha colpito con violenza mortale, ma quando di fronte al Creatore ha negato d’esser “custode” di Abele: non sentirsi responsabili dell’altro è ucciderlo! E ancora lo stesso autore russo specifica che il giudizio finale sarà sulla stessa domanda, che Dio rivolgerà a ogni uomo, e forse in modo particolare a chi si sente buono, come Abele: “Che ne hai fatto di Caino?” Ovvero la responsabilità nei confronti dell’altro, di qualsiasi altro, specie di chi sbaglia.
Se sparisce il padre sparisce anche ogni responsabilità, e costruiamo un mondo di bambini perennemente litigiosi o di irosi (pre)adolescenti, adulti solo all’anagrafe. Un mondo ove nessuno più si fa carico di nessuno.
E ancora, il padre è ed è chiamato a esser colui che riesce a bilanciare tra loro autonomia e riferimento a valori normativi, attenzione a sé e all’altro, libertà e responsabilità, oggettività e soggettività. Un processo educativo è tale solo grazie a questo equilibrio, e alla presenza d’un padre a sua volta in relazione costruttiva con una sposa (e madre).
E il discorso s’estende naturalmente alla coppia: le categorie padre e madre, maschile e femminile, sono complementari e irrinunciabili per una società sana e adulta, ove ognuno è complementare all’altro per generare assieme vita e felicità. I legami affettivi originari, in armonia tra loro, sono costitutivi di identità; al di fuori di essi c’è solo la confusione identitaria e il caos relazionale, ove nessuno è se stesso e in pace con sé e con l’altro. Ma il padre oggi è necessario anche sul piano della fede.
Perché la paternità è pur sempre la prima caratteristica di Dio, e il padre terreno, col suo modo di porsi, di voler bene, di volere la crescita e la gioia del figlio, di farsi da parte per dargli spazio, è la prima immagine del Padre-Dio per il figlio stesso. In quello stile relazionale nasce ogni cammino di fede, oppure s’interrompe o viene deformato per sempre. È grande mistero che la qualità del rapporto con Dio dipenda in buona parte dalla qualità del rapporto originario col proprio genitore, ed è pure grande responsabilità per ogni padre!
Per questo il padre è necessario ancor oggi, come sempre. Ma occorre, forse ancor più che un tempo, che vi siano nella Chiesa cammini formativi alla vocazione paterna. La più bella che ci sia!