La giustificabilità della violazione di una legge in presenza di situazioni di emergenza, di uno stato di necessità o di pericolo è una domanda che presuppone una risposta articolata e complessa.
Sebbene, infatti, siano diversi i casi in cui la presenza tali circostanze può giustificare l’adozione di un comportamento in violazione di una norma, senza tuttavia far venir meno il suo carattere antigiuridico, occorre sottolineare l’eccezionalità di tali previsioni, che trovano la loro fonte di legittimazione nella sussistenza di un bilanciamento tra interessi in gioco che, in determinate circostanze e condizioni, vede uno di questi recedere rispetto all’altro in funzione del grado di tutela offerto dall’ordinamento.
È il classico caso dello stato di necessità previsto dall’art. 54 del codice penale, laddove la necessità di evitare un danno grave alla persona può costituire causa di non punibilità. O, sul fronte civilistico, dell’art. 2045 del codice civile che rimette all’equo apprezzamento del giudice la determinazione di un indennizzo (e non dell’integrale risarcimento del danno) in favore del danneggiato. Il concetto chiave, in tutti questi casi, è quello del bilanciamento tra interessi e valori contrapposti, inteso quale prezioso strumento attraverso cui l’ordinamento giuridico ricompone i conflitti intersoggettivi assicurando una convivenza civile e pacifica.
Uno dei principi cardine di quello che chiamiamo stato di diritto è il principio di legalità che esprime il primato della legge come manifestazione della sovranità popolare e in forza del quale nessun soggetto dell’ordinamento - sia esso un singolo cittadino, una pubblica amministrazione, un’impresa, un’associazione, un rifugiato o un emigrato irregolare - può ritenersi sottratto all’obbligo di rispettarne le leggi. In quanto strumento fondamentale per assicurare la pacifica convivenza, tale principio assolve ad una funzione di garanzia del cittadino a tutela della libertà di quest’ultimo, sia rispetto al potere coercitivo dello Stato che all’esercizio dei diritti di libertà da parte degli altri consociati.
Pertanto, in una realtà sociale organizzata secondo la rule of law, nessun soggetto può legittimamente ritenersi al di sopra delle regole, siano esse nazionali, regionali, europee o internazionali, così come pure sottrarsi dai propri obblighi contrattuali o dalle prescrizioni imposte da una qualunque autorità amministrativa. E, sempreché, tali obblighi negoziali o amministrativi siano sorti in virtù di un contratto legittimamente stipulato o siano conseguenza del legittimo esercizio dei poteri da parte di una pubblica amministrazione.
La dinamica di una società complessa come la nostra presenta però molteplici conflitti intersoggettivi e una naturale contrapposizione tra valori e interessi che devono trovare, all’interno delle relazioni sociali e nell’ordinamento giuridico, adeguati strumenti di ricomposizione. Si pensi al caso dell’Ilva di Taranto, dove per anni il conflitto ha riguardato due valori fondamentali come la salute e il lavoro. O, ancora, al recente caso della Sea Watch 3 e al controverso dibattito che vede contrapposte le ragioni del soccorso umanitario con quelle della tutela dei confini nazionali e della sicurezza. E, infine, alle esigenze di finanza pubblica e di contenimento della spesa che impongono scelte dolorose in termini di contrazione dei livelli di welfare.
Tali strumenti di ricomposizione presuppongono, a loro volta, l’esistenza di una precisa scala di valori e interessi coerente con la realtà sociale e il contesto culturale che il fenomeno giuridico è chiamato a regolare.
In tutti questi casi, quando cioè il conflitto tocca interessi qualificati dall’ordinamento stesso come ugualmente meritevoli di tutela si pone perciò in capo al legislatore, al giudice o alla pubblica amministrazione, l’onere di effettuare un bilanciamento che solitamente si risolve con l’individuazione di un valore dominante e di uno recessivo. Non si tratta, ovviamente, di scelte rimesse all’arbitrio del legislatore, della magistratura o dell’amministrazione, bensì di una operazione che presuppone - in ossequio al principio di legalità - la coerenza con i valori di fondo dell’ordinamento costituzionale e, in ragione dell’appartenenza alla comunità internazionale, con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale.
La cronaca degli ultimi giorni, i commenti e le reazioni dei leader politici sulle vicende Sea Watch 3, Atlantia, Ilva, passando per la procedura di infrazione per deficit eccessivo, sono il termometro di un preoccupante stato di salute dei nostri strumenti di ricomposizione dei conflitti sociali. Ci offrono, infatti, lo spaccato di un malinteso concetto di sovranità popolare che, lungi dall’esprimere il suo senso autentico di limite al potere politico in funzione di garanzia dei diritti fondamentali della persona, finisce per significare il suo esatto contrario. La degradazione del concetto di sovranità, tanto sul piano dei rapporti internazionali che su quello interno, e di tutto ciò che dall’esercizio di quest’ultima consegue, diretta conseguenza della degradazione dell’ambiente materiale, culturale e sociale nel quale viviamo, costituisce un grave vulnus rispetto alla capacità del nostro ordinamento di governare e di ricomporre efficacemente le fratture e le contrapposizioni che caratterizzano la nostra società.
Il fatto stesso di doverci domandare se sia lecito violare la legge per salvare vite umane è il sintomo di un preoccupante imbarbarimento culturale e sociale che, a lungo andare, rischia di deresponsabilizzare la società civile rispetto al compito primario di trovare essa stessa, al suo interno, riconoscendosi come comunità, idonei strumenti di ricomposizione dei conflitti intersoggettivi attraverso la condivisione di valori di fondo (a partire da quello della vita e della dignità umana) e, dall’altro, quale sua diretta conseguenza, di sovraccaricare ed irrigidire i meccanismi di ricomposizione offerti dall’ordinamento giuridico, ponendo così a rischio la stessa civile e pacifica convivenza.