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Il Senato ha approvato con 180 voti a favore il disegno di legge che taglia il numero dei parlamentari, portando i deputati a 400 (rispetto agli attuali 630) e i senatori a 200 (ora 315).

Si tratta di una riforma che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione e che quindi, secondo la procedura di revisione costituzionale, necessita di una doppia approvazione da parte di Camera e Senato a distanza di almeno tre mesi tra una deliberazione e l’altra. L’iter è in fase molto avanzata perché i due rami del Parlamento si erano già espressi una prima volta (il Senato a febbraio, la Camera a maggio).

A questo punto, dunque, manca soltanto un nuovo voto da parte dei deputati, tenuto conto che in seconda lettura non è possibile apportare modifiche al testo ma soltanto approvarlo o respingerlo.

Completati i quattro passaggi, non essendo stato raggiunto il quorum dei due terzi, c’è la possibilità che entro tre mesi venga richiesto un referendum confermativo: possono farlo un quinto dei membri di una camera, 500 mila elettori o cinque consigli regionali. Ma visto che si tratta di una riforma potenzialmente molto gradita all’opinione pubblica non è agevole immaginare che qualche soggetto rischi di imbarcarsi in una consultazione dall’esito praticamente scontato. A meno che non si intenda fare comunque una battaglia ideale o, più prosaicamente, rinviare l’entrata in vigore della riforma contando sulla fine anticipata della legislatura. Intanto - lo scorso 13 maggio - è stata già approvata in via definitiva una legge ordinaria che assicura l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, anticipando un provvedimento che si sarebbe reso indispensabile dopo il varo della modifica costituzionale.

Non è la prima volta che si cerca di intervenire sul numero dei parlamentari. Lo aveva già fatto la riforma Renzi, approvata dalle camere e poi bocciata nel successivo referendum, che però collocava la riduzione dei seggi all’interno di una revisione costituzionale molto più vasta, comprendente l’abolizione del Senato elettivo. Anche per questo precedente, stavolta i sostenitori del taglio (fortemente voluto dal M5S e sostenuto anche da Lega e Fratelli d’Italia) hanno puntato su intervento mirato, isolando un aspetto su cui è agevole prevedere un ampio consenso da parte dell’opinione pubblica. Paradossalmente il testo che si avvia al traguardo è molto simile alla proposta di Gaetano Quagliariello (allora senatore Ncd-Ap) e Massimo D’Alema, presentata nel 2016 come contraltare alla riforma Renzi. Vale la pena ricordarlo perché, se è doveroso esaminare con senso critico la legge in dirittura d’arrivo, bisogna pensarci bene prima di stracciarsi le vesti davanti alla venatura di anti-parlamentarismo che si può cogliere in certe mosse della maggioranza giallo-verde. Sempre per onestà intellettuale, è giusto sottolineare che - secondo un accreditato filone di dottrina costituzionale - le leggi di revisione della Carta dovrebbero essere sempre “chirurgiche” come quella di cui si sta parlando e non investire larghe parti dell’impianto disegnato dalla Costituzione.

Ciò non toglie che i nodi problematici del taglio siano tutt’altro che irrilevanti. Riducendo in misura così drastica il numero dei parlamentari, per esempio, si incide fortemente sulla rappresentanza e si rischia di rendere evanescente il rapporto tra gli eletti e gli elettori rispetto ai territori. È infatti intuitivo che, con molti meno seggi da assegnare, si dovrà allargare notevolmente la dimensione dei collegi, laddove già la situazione attuale vede l’Italia al 24esimo posto in Europa per numero di deputati ogni 100 mila abitanti, nella graduatoria relativa alle cosiddette “camere basse”, come appunto la Camera dei deputati. Tra i 14 Stati che hanno anche una “camera alta”, come il nostro Senato, l’Italia si colloca in nona posizione. Con il taglio il nostro Paese si ritroverebbe all’ultimo posto nella prima graduatoria e al penultimo nella seconda. Dati che occorre tenere a mente quando si dice che i parlamentari italiani nel loro complesso sono troppi. Effettivamente, se si considerano soltanto i numeri assoluti, in Europa solo il Regno Unito ne ha di più. Con la riforma ci supereranno anche Francia, Germania e Spagna. Un altro effetto, indiretto ma concretissimo, riguarda la proporzionalità del sistema elettorale. Con molti meno seggi da assegnare, i partiti più forti faranno man bassa a tutto svantaggio delle forze minori. La legge elettorale in vigore fissa una soglia di sbarramento del 3%, ma con il taglio dei parlamentari si avrà una soglia di sbarramento implicita molto più elevata. Secondo alcune stime, per le liste al Senato si arriverà in certi casi addirittura al 20%. Questa prospettiva può anche essere valutata positivamente da chi auspica una radicale semplificazione della rappresentanza parlamentare, ma va detta con chiarezza perché si possa valutare con cognizione di causa. C’è inoltre da considerare, anche a voler battere sul tasto dei risparmi, la situazione un po’ surreale di due camere di dimensioni notevolmente ridotte, ma che continueranno a svolgere esattamente le stesse funzioni. Un doppione che rappresenta quasi un unicum a livello internazionale. Ma questa è un’altra storia: visto com’è andata con la riforma Renzi, ci vorrà molto tempo prima che si ponga nuovamente mano a questo problema. E forse è meglio così, perché a forza di tagliare e ridurre qualcuno potrebbe anche pensare che alla fine il Parlamento è inutile e se ne può fare a meno.

 

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