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Il rapporto 2018 del “Sole 24 Ore” sulla “Qualità della vita” ci consegna una fotografia un po’ ingiallita del Belpaese. Infatti, dal 1999, anno di esordio del report, ad oggi poco o niente è cambiato in una classifica stabilmente aperta dalle province del Nord e altrettanto stabilmente chiusa dalle provincie del Sud, con il Centro che fa da cuscinetto tra i primi e gli ultimi.

La qualità della vita è un concetto che si presta a interpretazioni e a valutazioni soggettive; allo stesso tempo è un parametro sociale che può avere diverse chiavi di lettura, da quella basata su criteri economici a quella che valorizza gli aspetti esperienziali legati ad una vivibilità dei luoghi che privilegia la storia, la bellezza, la natura, l’arte, il benessere psicologico, la cultura identitaria, i rapporti tra le persone. Tutti aspetti ai quali è difficile, se non impossibile, attribuire un valore economico e dei quali abbondano molte aree del Mezzogiorno, alquanto penalizzate dalla scelta degli indicatori - sicuramente vari, ma non esaustivi -, che sono alla base della ricerca del “Sole” e che ne influenzano il risultato finale.   

Uno scrittore e poeta irriverente come Charles Bukowski diceva: “Non mi fido delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperature media”. Senz’altro una battuta provocatoria, ma anche un invito a riflettere sui dati, a non dare nulla per scontato, neanche quando la pretesa verità si mostra vestita con la corazza di numeri ritenuti infallibili.

Ciò non vuol dire che il rapporto del “Sole” non abbia una sua coerenza scientifica, o sia privo di un’utilità pratica e di una  validità di fondo, se non altro perché conferma, attraverso una grande quantità di elementi statistici ragionati, l’identikit di un  Paese pericolosamente diviso e a due velocità. E, seppur in modo indiretto, indica gli impegni da assumere, i gravi ritardi da superare, gli obiettivi sui quali impegnare risorse e progettualità per provare ad archiviare la realtà di un Mezzogiorno perennemente in coda al convoglio di un sistema socio-economico squilibrato e per questo lento nel suo procedere.

La classifica 2018 vede Milano in testa e a seguire una sfilza di province del Nord, poi si fanno avanti quelle del Centro, infine le province meridionali: ultima Vibo Valentia (al 107.mo posto), preceduta da Foggia (106) e Taranto (105); la Bat è al 99.mo posto, Brindisi al 98.mo, Lecce al 92.mo posto, ma recupera dodici posizioni rispetto alla precedente rilevazione. Bari è la provincia pugliese meglio classificata (77).

A conti fatti, la Puglia esce con le ossa rotte con quattro delle sue province scivolate tra le ultime dieci del ranking nazionale, mentre il Salento è in risalita, anche se è il territorio con il peggior piazzamento regionale in relazione al Pil pro-capite e tra le ultime dieci in Italia per produzione di ricchezza. Sono dati che devono far riflettere le Istituzioni regionali e locali e le forze sociali chiamate, ciascuna per il suo ruolo, a contribuire ad un vigoroso progetto di crescita.

Sei sono le macro-aree che fanno da intelaiatura a tutta la ricerca: Ricchezza e consumi, Affari e lavoro, Ambiente e servizi, Demografia e società, Giustizia e sicurezza, Cultura e tempo libero. A sua volta, ogni macro-area propone sette indicatori specifici che in totale sono 42.

Gli indicatori economici penalizzano il Salento: si va dal 93.mo posto per la Ricchezza e consumi (ma sul Pil pro-capite si scende al centesimo), al 105.mo posto per Affari e lavoro. Va meglio nelle altre quattro macro-aree con il sensibile miglioramento della posizione rispetto alla graduatoria generale: Ambiente e servizi (67), Demografia e società (73) anche se in questo ambito va registrato il basso tasso di natalità (in media 1,2 figli per donna nel 2017) che colloca la provincia di Lecce al centesimo posto. Su Giustizia e sicurezza il Salento è all’87.mo posto e su Cultura e tempo libero al 70.mo.

Un Salento tra luci ed ombre, anche se va sottolineato positivamente il recupero di dodici posizioni in un contesto di difficoltà strutturali vecchie e nuove.

Ancora una volta il tallone d’Achille della provincia di Lecce è l’economia debole che ha come effetto la mancanza di lavoro, in  particolare per le nuove generazioni costrette a lasciare la loro terra per cercare occasioni altrove. È un processo di impoverimento continuo che non può essere contrastato con il solo turismo, un’attività in espansione ma che ancora sconta il fattore stagionalità.

L’unica risposta per il presente e il futuro non può che essere un piano di investimenti sulle infrastrutture - materiali e immateriali - e sulle attività produttive innovative in modo da rilanciare l’economia e l’occupazione. E bisogna agire in fretta per evitare che il report del 2019 - discutibile quanto si vorrà, ma impossibile da ignorare - veda il Salento in movimento, con il passo del gambero. 

 

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