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Era un giorno di rigoroso digiuno perché, come recita un antico proverbio, ci nu fasce lu desciunu te Natale o ca e’ turchiu o ca e’ cane…o nu tene mancu pane, chi non fa il digiuno a Natale o è turco (non credente) o è cane…o non ha nemmeno pane.

 

 

 

L’astensione dal cibo terminava col cenone, così detto per il considerevole numero di pietanze contemplate, tra cui le immancabili pittule, le rape caule lesse o ‘nfucate, gli spaghetti alla pizzaiola o ai frutti di mare, la spicanarda col baccalà, la frutta sia fresca che secca, il capitone e via elencando.

Insomma, ove possibile, la tavola doveva essere all’insegna dell’abbondanza straordinaria come anche le lucerne che dovevano essere traboccanti di olio e il fuoco nel camino alimentato con insoliti grossi ceppi.

Le pietanze si dovevano consumare prima della mezzanotte per permettere ai commensali di assistere alla celebrazione della messa, nella più vicina chiesa, annunziata dai rintocchi della campana. Secondo le credenze popolari, la tavola imbandita non si disfaceva per consentire ai defunti di potere assaggiare ciò che si lasciava appositamente siccome ritornavano sulla terra in occasione del Natale.

Terminato il cenone (o prima, a seconda delle abitudini di ciascuna famiglia) si usava mintere lu Mamminu, mettere il Bambino, ossia deporlo nella mangiatoia; solitamente questo incarico era devoluto dal più piccolo dei presenti, mentre gli altri, con in mano le candeline accese, cantavano “Tu scendi dalle stelle”, canzone composta (1754) da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.

La collocazione del pargoletto nel presepe di casa, era pure l’occasione che i bambini recitassero i sunetti, quei componimenti in prosa dal carattere popolare, contenenti un elogio a Gesù Bambino - definito zzuccaratu, bellu Mmamminu, con la buccuzza china de mele eccetera - o, quasi sempre, conditi con un pizzico di sano, genuino umorismo. Invece, in strada, nelle corti, nelle piazzette, in segno di giubilo, si facevano scoppiare tricchi-tracchi e trunetti, innocui fuochi d’artificio, oppure si accendevano piccole focàre, cataste di legna, per scaldare idealmente il Bambino e per rinnovare il rito del fuoco, ritenuto propiziatorio.

La cenere che si otteneva dalla lenta combustione e che non era stata calpestata da alcuno, si conservava in casa per l’intrinseco valore apotropaico perché si riteneva che guarisse da alcune malattie e allontanasse le calamità naturali. Talvolta si utilizzava quando si faceva il bucato nel cofanu, conca di creta, o si spargeva in campagna per favorire buoni raccolti.

In passato non vi era l’usanza di scambiarsi doni la notte di Natale – ciò che oggi denominano strenne, volgarmente strina o strena che, fino al XVIII secolo si offriva o si riceveva a Capodanno – perché, prima che si affermasse la consuetudine di offrire regali natalizi soprattutto ai bambini, erano i Re Magi ad avere questa funzione il 6 gennaio, in ricordo dei tre doni offerti al Bambino.

Poi è toccato alla Befana. E ne parleremo quando sarà il momento. Ma non si pensi a doni costosi, improbabili, a lungo desiderati. Erano piccole attenzioni e, prevalentemente, oggetti utili se non proprio indispensabili…per chi poteva permetterseli.

 

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