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La frase di Shakespeare è abbastanza nota: “Lussuria, lussuria; sempre guerra e lussuria; non c’è nient’altro che rimanga di moda» (Troilo e Cressida).

 

 

 

 

Eppure, l’attuale scenario mediorientale, in parte anche quello ucraino e di diversi altri conflitti esistenti nel mondo, mi portano quasi a “riscrivere” l’affermazione del Bardo “Follia, follia: sempre guerra e follia; non c’è nient’altro che rimanga di moda”.

La guerra è un fenomeno complesso: presenta fattori istituzionali, geopolitici, economici, territoriali, storici… ma anche antropologici.  “Il comportamento aggressivo delle persone, leader inclusi - scriveva Eric Fromm - quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca l’occasione propizia per manifestarsi” (The anatomy of human destructiveness). E questo desiderio di distruttività verso se stessi, gli altri, la natura e Iddio, in coloro che detengono un potere, può portare a vere e proprie forme di follia. Leggo in questo modo alcune azioni di Netanyahu, i militanti Hezbollah, Putin, Zelens’kyj, i leader iraniani. Ovviamente, proprio perché parliamo di un fenomeno complesso, anche i gradi e le forme di follia sono diverse, ma nella loro essenza fanno capo alla stessa matrice. È come l’influenza che ha vari ceppi, ma sempre influenza è.

Ma cosa è successo nella testa e nel cuore di questi leader? Una terribile perdita (o assenza) di convinzioni e principi morali autentici, un costante tradimento delle loro Costituzioni e dei trattati di diritto umanitario internazionale. Senza un’autentica formazione e da una verifica costante, la violenza, da remota tentazione, diventa realtà molto probabile, anche con l’incentivo della corruzione dei fabbricanti di armi esercitata su popoli e governi. Senza dimenticare che, come dice Guardini, quanto più grande è il potere, tanto più forte è la tentazione di scegliere la soluzione più facile, cioè quella della violenza. Senza dimenticare che i veri e unici beneficiati dalla guerra sono i produttori e commercianti di armi. Tutti gli altri attori (politici, eserciti, diplomatici, imprenditori, leader religiosi e culturali) con la guerra ci perdono, chi più, chi meno!

La scena teatrale impone sempre una riflessione, che va oltre gli attori alla ribalta. Perché essi sono o diventano così violenti? La violenza nasce non nelle istituzioni, ma nella persona. In ognuno di noi si possono distinguere, secondo Platone, tre forze: quella concupiscibile (noi diremmo del desiderio), quella animosa (noi diremmo emotiva) e quella razionale. Esse sono tra di loro in relazione gerarchica: la ragione deve governare, sia le emozioni, sia i desideri, orientandoli verso il bene. Il conflitto nasce quando emozioni e desideri assumono il comando della persona e la razionalità soccombe; ciò accade quando la persona si abbandona ad una vita disordinata, fatta di piaceri ed istintività e non è educata ad una vita equilibrata, che Aristotele chiama virtuosa e saggia.

Anche la storia biblica conosce il rapporto tra potere e violenza e ne sono emblema i primi due re di Israele, Saul e Davide. La molteplicità degli eventi mostra come la stabilità della regalità dipenda dal valore dato alla forza: il regno è sicuro quando è stretta la fedeltà al Signore; solo allora il nemico non può vincere. Fragile diventa il regno quando si affida a braccia avide di potere, quando i cuori di molti sono inquinati da cupidigia e disordini relazionali. Gli autori biblici sono ben convinti che il potere scateni le varie cupidigie e le forme di idolatria che fanno allontanare i regnanti dalla via di Dio e lo fanno precipitare nella violenza, di cui, alla fine, resta lui stesso vittima.

Una riflessione merita anche il panorama dei leader di altri Paesi, in diversi modi coinvolti nei conflitti. A parte nobili eccezioni - il segretario UN Guterres e Papa Francesco e pochi altri - la frenetica attività di alcuni capi di stato è anch’essa “shakespeariana”: “molto rumore per nulla”. Assistiamo a un’infinità di dichiarazioni fatte con il bilancino per non offendere nessuno e mandare in oblio le vittime di tutte le parti oppure, ancor peggio, fatte per carpire consensi interni e confermare equilibri elettorali. Che vergogna: le guerre usate per beghe nazionali. Per non parlare di viaggi diplomatici inutili che servono solo a spendere soldi pubblici, visto che alcune parti non vogliono affatto dialogare. Senza dimenticare le manifestazioni pacifiste un po’ miopi e sciocche che credono che il male sia tutto da una parte. Solo quando si assumerà la prospettiva delle vittime di ogni schieramento e territorio, forse solo allora ci sarà qualche spiraglio di pace. Intanto guerre e follie, purtroppo, non frenano la loro corsa, con la follia che cresce da una parte e la pochezza culturale e politica che fa spettacolo dall’altra.  

Herman Hesse nel lontano (!?) 1927 scriveva: “Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un’ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuole evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni di individui. Rifletterci un’ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo…” (Il lupo della steppa).  

 

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