Un voto basso in condotta e in alcune materie, un’interrogazione da fare… Possono questi pochi motivi giustificare un’aggressione con tanto di coltello con lama seghettata a un’insegnante e minacce ai compagni di classe con pistola, poi rivelatasi giocattolo, in una scuola ad Abbiategrasso, ad opera di un sedicenne, ora ricoverato in un reparto di Neuropsichiatria dell’età adolescenziale?
Una reazione così spropositata è un sintomo di un malessere più grande? Sono domande che abbiamo rivolto a Damiano Rizzi, psicologo, psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza e presidente della Fondazione Soleterre.
Il grave episodio che ha visto protagonista uno studente ad Abbiategrasso ad alcuni ha fatto pensare a quanto avviene negli Stati Uniti, dove episodi di violenza avvengono anche ad opera di giovanissimi nelle scuole. C’è il rischio di emulazione?
Sì, questo è il rischio più grande, perché episodi come questi danno anche visibilità, notorietà, così come si seguono esempi positivi, incanalando nel bene le proprie energie, questo invece mostra una strada negativa ma che potrebbe essere seguita. Ed è un episodio che scuote tutti, non solo il mondo della scuola. L’aspetto sostanziale della vicenda è la reazione tremendamente spropositata rispetto a quello che può essere un sentimento di frustrazione per un voto basso o per un periodo in cui le cose non vanno bene. Questioni risolvibili, ma il problema è la mancanza di confronto in un mondo che spesso è asimmetrico. Le relazioni oggi spesso sono asimmetriche, per cui l’insegnante detiene la conoscenza e anche il potere e gli studenti devono spesso subirlo. Il Covid dimostra anche come la scuola sia stata lasciata in un passaggio dalla presenza all’on line senza formazione specifica per gli insegnanti. Bisogna capire perché succedono le cose. Lo psicologo a scuola c’è più che in altri luoghi, mentre manca in tutte le altre parti. Manca completamente una cultura psicologica. Da tempo si hanno dati che denunciano che l’80% dei minori e degli adolescenti non hanno accesso al servizio psicologico pubblico. Ci sono ricerche, e ne abbiamo fatto anche una noi con l’Università cattolica di Milano, dove si dice che il 17% degli studenti intende fare del male a loro stessi o agli altri una volta o più di una volta al giorno. C’è chi, come il ragazzo di Abbiategrasso, esternalizza questa rabbia. Chi commette un atto che mette a rischio la vita di un’altra persona interroga uno Stato, perché la vita è un bene collettivo che va oltre il rapporto tra studente e insegnante, quindi si tratta di una vicenda collettiva, che scuote e, avendo una valenza culturale, riguarda tutti i governi, non solo quello attuale.
Cosa si dovrebbe fare secondo lei?
Chiediamoci: dobbiamo interrogarci su situazioni come queste solo quando si rischia l’omicidio? Oppure è il caso di iniziare a intervenire creando uno psicologo di base? Le famiglie oggi danno per scontato che se il bambino si ammala vanno dal pediatra, mentre per i problemi della salute mentale tutto questo non c’è. Poi quando uno studente prende un coltello e colpisce un insegnante, diciamo che serve lo psicologo a scuola. E per il resto? Domandiamoci che problemi ci sono in famiglia, i minori infatti vivono in famiglie, che spesso sono lasciate sole da questo punto di vista, in un contesto di crisi economica in cui le persone non hanno i soldi per pagare la psicoterapia privata. In Italia ci sono circa 2,8 psicologi per 100mila abitanti, ne servirebbe uno ogni 1.500, ma ci sono 3 psicoterapeuti privati ogni 1.500 abitanti: quindi basterebbe stanziare dei fondi pubblici e fare subito una convenzione tra Stato e Ordine degli psicologi per dare la possibilità gratuita alle persone di andare dallo psicologo, che sarebbe in collegamento con i distretti di salute mentale, da potenziati. Manca una visualizzazione del problema, ma le soluzioni ci sono. Quindi, è limitativo dire di mettere lo psicologo a scuola, prima dovremmo capire se funziona dove il servizio è offerto. Tra l’altro, uno psicologo a scuola può fare poco e non può seguire effettivamente i ragazzi, ma suggerire di andare da uno psicologo. E poi il problema non è solo nella scuola, ma dappertutto: stanno male le persone a casa, i genitori dei ragazzi, oltre che i figli.
Ma cosa ha prodotto quest’aggravamento generale delle condizioni di salute mentale degli italiani?
La salute mentale apparentemente sembra invisibile, per poi vederne gli effetti quando ci sono problemi e si registrano comportamenti di sregolati, di aggressività estrema: poteva morire la povera insegnante di Abbiategrasso a cui va tutta la nostra solidarietà. Certamente un ragazzo che compie un’aggressione come quella ai danni della professoressa sicuramente sta male e ha bisogno di aiuto, ma prima di compiere azioni che lo trasformano poi in carnefice. Il Covid, la crisi, la guerra: di fronte a tutte queste prove, le persone si sentono sole, inadatte. Quando le persone non possono vivere in relazione con gli altri quello che sono si sentono profondamente sole: la morte psichica è quasi peggio della morte reale. Abbiamo tassi di depressione giovanile elevatissimi. Avere una depressione grave vuol dire non avere più la speranza e il piacere di vivere in ogni aspetto dell’esistenza, non solo nella scuola. Il Covid ha segnato molto i ragazzi. La ricerca dell’identità, soprattutto nella fase adolescenziale, è fatta di esplorazione e di tornare a un porto sicuro che dovrebbe confermare alcune delle esperienze fatte e disconfermarne altre, i ragazzi a quell’età hanno un lavoro importante da compiere: devono fare il lutto della loro identità infantile e diventare giovani adulti. In un periodo così complicato, tutti pensano di poter essere ricchi, belli e famosi e arrivare subito agli obiettivi senza fare troppa fatica. Questo è il modello culturale prevalente, nessuno vuole più sacrificarsi, i giovani stanno facendo molta fatica dentro modelli culturali di riferimento che non ci sono più. Credo che bisogna adattarsi a un profondo cambiamento culturale. Sembrerebbe che in questa fase storica il male stia vincendo, basti pensare alla guerra in Ucraina, alla ripresa degli scontri in Kosovo, al conflitto in Sudan: quanto presa ha il bene? E che tempi hanno le strade del bene? Sono domande che dovrebbero interrogarci profondamente.
E quali risposte possiamo trovare?
La psicologia può essere una grande risposta perché promuove la cultura del dialogo tra differenti. Si dà per scontato che ognuno di noi è un mondo diverso dall’altro ed è importante che l’altro ci sia. Spesso i ragazzi che arrivano a uccidere hanno una paranoia nella loro testa, quasi pensando di risolvere il problema dei voti bassi ammazzando la professoressa. Se vogliamo avere ancora qualche possibilità, occorre valorizzare una cultura psicologica nel nostro Paese, non solo nelle scuole, e creare quanto prima una figura tipo lo psicologo di base. Dobbiamo anche far in modo di essere persone di “parola”, cioè che la parola possa ancora alimentare il confronto tra gli individui, perché quando la parola viene meno si passa all’atto. E i problemi di salute mentale non riguardano solo gli adolescenti. Abbiamo un Osservatorio al Policlinico San Matteo di Pavia, grazie al quale facciamo costantemente ricerche sulla salute mentale degli italiani, e le anticipo un dato: già rispetto a una rilevazione di un anno fa la salute mentale è peggiorata di cinque punti. Il 17% degli italiani dai 18 anni in su dice di avere una cattiva salute mentale, rispetto al 12% che lo diceva un anno fa. L’articolo 32 della Costituzione recita che la Repubblica considera la salute un diritto fondamentale. Eppure, quando parliamo comunemente di salute, non comprendiamo mai anche la salute mentale. E invece è sbagliato. C’è bisogno di un piano sistemico di intervento pubblico-privato per rispondere a un’emergenza nazionale che riguarda la salute mentale degli italiani.