Lo ripetiamo con la convinzione certa che non esista una classifica della sofferenza, il dolore della morte e della violenza non sono più o meno forti a seconda del riscontro mediatico. Ma ciò a cui abbiamo partecipato in questi giorni con la morte di Giulia Cecchettin è stato un vero atto terroristico al cuore della nostra civiltà.
È per questo che tutti sono intervenuti, che il tema ha investito politica, istituzioni, piazze e teatri. Non perché un femminicidio sia più doloroso di un altro, l’interruzione della vita da parte di una persona verso un’altra porta con sé sempre la stessa gravità. Non è stato nemmeno un desiderio voyeuristico di partecipazione ad un evento di massa, ma è tutti in massa che ci siamo immedesimati in Giulia. È così “da questo tipo di violenza solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”.
La morte di Giulia è riuscita a non far sentire escluso proprio nessuno, ma è proprio quando un tema riguarda tutti, facilmente rischia di essere distorto o strumentalizzato. Che facilmente rischia di essere risposta armata, fuoco che brucia in una irrefrenabile escalation di dolore. In quella chiesa gremita in cui tutta l’Italia è stata Padova per un’ora, abbiamo assistito al miracolo dell’universalità della comunicazione. In una babele di voci, tra giustizialismo e lotte di genere, uomini in cerca di perdono solo nella colpevolizzazione del maschile, occasioni rottura dell’alleanza uomo-donna, accuse politiche chirurgicamente volte a colpire e soprattutto di fronte alla ricerca di capri espiatori di breve durata, hanno trionfato le parole di un padre che lascia una figlia in un saluto composto e fermo pronunciato da una barca sbattuta dalla tempesta.
Parole laiche, universali e umili pronunciate durante il rito con cui la Chiesa celebra il passaggio alla vita eterna. Una scelta consapevole e sostanziata dai gesti e dagli abbracci promessi ai genitori del proprio aguzzino. Parole di un padre che non trionfa di potenza mascolina ma umana, di un uomo capace di amare ancora una volta oltre la morte. Parole di un maschio uomo. Parole che diventano di tutti e liberano qualsiasi orrore compiuto o futuro. Parole che parlano della capacità profonda del genere umano: in grado di superare lo sgomento del male profondo di cui esso stesso è capace, in un paese veneto come fosse una strada Gaza. Parole che volano verso la consapevolezza di poter scegliere: “Io voglio sperare”.
La speranza poteva essere declinata come l’ultima delle possibilità a cui ancorarsi e così non è stato. La speranza si è sostanziata nello sguardo serio, nella pacatezza di una voce maschile, nell’abbraccio sostenuto di una sorella straziata, nella consapevolezza urlata sottovoce di una condizione che è conseguenza del male, ma non per questo smette di auto definirsi per volontà e non per rassegnazione!
La scelta che contraddistingue ogni essere quella stessa scelta, quello stesso libero arbitrio che in un assurdo non senso porta anche a scegliere deliberatamente di uccidere. È la scelta di sperare. Che ha squarciato le tenebre dell’orrore. Che ha acceso la scintilla che non brucia tutto ma illumina tutto!