In questo tempo recente, macchiato dal sangue ancora caldo delle ultime donne brutalmente accoltellate dai propri compagni, mi chiedo se si può risalire - ove fosse possibile - a un’origine storica non soltanto del fenomeno, ma alla/e causa/e che lo hanno fatto scaturire.
Non per giustificare, beninteso, l’insano gesto che provoca un unanime, spontaneo e profondo sgomento, bensì per rintracciare un’eventuale prova di come il genere maschile (senza generalizzare, ovviamente), così comportandosi, manifesti chiari atteggiamenti di regressione, di spietata crudeltà, di possessione estrema, nella constatazione che alcuni modi di pensare e di agire, ritenuti scomparsi, invece si stiano sorprendentemente risvegliando. Per un inaspettato corto circuito nel cervello? Per un improvviso black-out mentale? Per un incredibile ritorno allo stadio preistorico?
Immagino che la gente comune non riesca a dare un senso né un motivo plausibile a tale efferata disumanità che cancella, d’un colpo, ogni principio di ragionevolezza o ogni ragionevole principio di rispetto della vita. Annientando specialmente quella femminile.
Impegnata a elaborare un progetto letterario, sto indagando sulla storia della donna in età romana, almeno duemila anni fa, e, idealmente, sto immedesimandomi nella quotidianità di quel tempo, scoprendo il ruolo della donna. Il contenuto di diversi saggi fin qui letti è univoco: la condizione femminile (in età arcaica) è stata difficile perché vissuta in una società a conduzione prevalentemente maschile.
Secondo il modello ideale di quel tempo, le tappe fondamentali della vita della donna erano il matrimonio e la maternità ai fini della procreazione. Tra l’altro, il numero dei parti doveva avere la fondata speranza che almeno uno o due neonati potessero raggiungere l’età adulta. Pertanto, la donna era fiaccata da numerosissime gravidanze e l’aborto era punito. Ricordo che generalmente la neonata non era gradita e veniva abbandonata a differenza del neonato che era accolto con gioia e orgoglio!
La donna sposata (matrona) era destinata a dedicarsi unicamente alle faccende domestiche, alla filatura della lana e alla tessitura per il confezionamento degli abiti della famiglia. Non poteva parlare in pubblico (dovendo rispettare il concetto di pudore), doveva essere riservata, casta, pia, obbediente, silenziosa al fine di non prevaricare la mentalità del maschio; un suo eventuale comportamento fuori dalle regole, era considerato intemperante. Le si imponeva, inoltre, di rispettare il matrimonio monogamo mentre il marito poteva avere più concubine. Questi, oltre alla propria attività, poteva svolgere quella forense, il servizio militare e abbracciare le fatiche della guerra. Mentre alla donna era riservato esclusivamente lo spazio interno della casa - una reclusione che terminava con la morte -, al maschio era destinato quello esterno, rappresentato, ripeto, dalla campagna da coltivare, dalla piazza o il foro, sedi dell’attività politica, oratoria o commerciale.
Secondo il comune modo di pensare di quel tempo, la divisione dei compiti era una questione di natura, corrispondente alla volontà degli dèi; ogni cambiamento andava contro di essa, vale a dire rovesciava l’ordine naturale delle cose.
Ancora: una donna troppo colta era insopportabile e, secondo il retore Giovenale, era meglio se non capisse tutto ciò che leggeva. Del resto, l’educazione femminile non aveva mai lo scopo di preparare una donna, pur di alto lignaggio, a una carica o a un ruolo pubblico né era ammissibile che essa avesse sogni nel cassetto o idee da realizzare. Così reclusa entro le mura domestiche, era difficile considerarla in termini di amica o di sorella o di compagna per un’impresa da portare avanti perché non vi erano elementi per renderla un soggetto pensante.
Perdere il proprio onore in caso fosse stata violentata, per la donna romana rappresentava un’ignominia. Lucrezia, moglie dello storico Collatino (VI-V secolo a.C.), violentata e, perciò, disonorata, rappresenta l’archetipo della castità matrimoniale che non doveva essere violata. Emblematico il fatto che la vergine Virginia, circuita con un inganno dal politico Appio Claudio, fu accoltellata a morte dal padre Virginio che pronunciò le seguenti parole: figlia mia, ti rendo la libertà, nell’unico modo possibile.
Il gesto non fu criticato né punito perché - secondo l’attitudine mentale e morale del tempo- la donna rimaneva in potere (manus) dei padri, dei mariti, dei fratelli e, vigendo una società di stampo patriarcale, la supremazia del pater familias era indiscussa. Eppure i Romani sono stati i padri del diritto ovvero dell’ordinamento giuridico e avrebbero potuto applicare la legge per punire o per graziare!
Quante volte, in questi ultimi giorni, si sta urlando nelle piazze d’Italia, contro il patriarcato!
Mi piacerebbe riportare informazioni inerenti la condizione vissuta dalla donna quando si sposava, passando dal potere assoluto del padre a quello del marito; la forma di matrimonio che era una sorta di compravendita tra il padre della sposa e il marito; la proibizione di divorziare; la proibizione che bevesse vino, oggetto di interdizione sacrale, punita con severità, addirittura con la morte. Eccetera eccetera.
Ma lo spazio è tiranno. Queste e altre notizie fanno riflettere sul fatto che al maschio era concesso tutto ciò che alla donna era negato.
Mi chiedo, per concludere, quanti altri millenni dobbiamo vivere per vedere il maschio, che spesso abbiamo accanto, dimostrare di essere finalmente cresciuto e abbia smesso di giocare coi sentimenti altrui, diventando adulto e definirsi cittadino maturo. Riservando il rispetto dovuto a una donna.