L’elemento culturale influisce certamente sulla decisione di una donna di non avere figli, ma il vero problema è la mancanza, nel nostro Paese, di un consenso condiviso sul valore sociale della maternità. Da questo discende l’assenza di misure e investimenti strutturali a suo sostegno.
Ne è convinta Emma Ciccarelli, membro del Consiglio direttivo del Forum delle associazioni familiari, che ha da poco pubblicato per i tipi di San Paolo il libro “Diventerò madre. Tracce di riflessione per un’esperienza che cambia il mondo”, contestualmente a “Diventerò padre. Tracce di riflessione per un’esperienza che cambia il mondo”, firmato dal marito Pier Marco Trulli. Ciccarelli interviene dopo il polverone suscitato dall’affermazione della sen. Lavinia Mennuni sulla necessità che la maternità torni ad essere “cool”.
“Nonostante i proclami, le azioni della politica non si traducono nella pratica in un riconoscimento effettivo del valore sociale della maternità - esordisce Ciccarelli -. Persiste una cultura che la relega continuamente nella sfera privata, lasciandone tutto il carico sulle spalle della donna. Una grave anomalia rispetto a molti Paesi europei, nei quali gli interventi e le politiche a sostegno della maternità sono consistenti, strutturali e consolidati. Sembra si abbia quasi il timore di affrontare pubblicamente il tema della maternità”.
Secondo lei da dove nasce questa resistenza?
Forse affonda le radici nelle storiche battaglie femministe che hanno, magari involontariamente, offuscato un po’ la maternità per far emergere potenzialità e talenti femminili in vista dell’emancipazione della donna. Uno scenario nel quale la maternità è stata presentata come una sorta di “diminutio”. Oggi la maternità viene da alcune parti sventolata come uno spauracchio che potrebbe far regredire la donna a tempi in cui il suo unico destino era diventare madre ma, almeno nel nostro mondo occidentale, questo mi sembra un alibi.
Però l’ultimo dossier del Servizio studi della Camera sull’occupazione femminile rileva che una neomamma su cinque lascia il proprio posto di lavoro.
Sì, perché non viene posta nelle condizioni di vivere pienamente la sua nuova condizione e, paradossalmente, viene quasi spinta dalla società a vivere questa scelta come colpa. Una logica da capovolgere: il mondo della politica, dell’economia e della cultura dovrebbe riconoscere in questa fase della vita della donna un momento di estremo valore per tutta la società, non un momento esclusivamente privato, ma questo passaggio fatica ad entrare. Da alcuni sondaggi di questi giorni, solo un terzo delle donne afferma la volontà di diventare madre. Del resto, in tanti ambienti di lavoro le donne, appena rimangono incinte, vengono ancora discriminate; in molti colloqui di assunzione viene addirittura chiesto loro se intendono o meno avere figli.
Oltre alla mancanza di riconoscimento sociale e di sostegni alla maternità, secondo lei entra in gioco anche una questione culturale?
In parte sì. In una società narcisista e individualista come la nostra, è come se si fosse radicata l’idea che la priorità sia il soddisfacimento dei propri bisogni senza alcun impegno di restituzione al mondo – alla famiglia, alla comunità – dei doni ricevuti, primo fra tutti il dono della vita. Però, sostenere come affermato da qualcuno, che si tratti solo di un problema culturale, è un alibi dietro il quale trincerarsi senza chiedere allo Stato di farsi carico del problema. In mancanza di misure serie e strutturali – come quelle messe in campo in Francia, Belgio, Germania, Svezia e Norvegia – per favorire la maternità, non si può dare la colpa solo all’elemento culturale.
I bonus, gli assegni, i provvedimenti “tampone” non sono sufficienti. Che cosa servirebbe?
Non risolve il bonus per un anno. Secondo le statistiche, da 0 a 18 anni un figlio costa alla famiglia circa 180mila euro; serve quindi un investimento in infrastrutture sociali di lungo periodo a livello di servizi, sanità, normativa del lavoro. Solo in presenza di questo si può pensare a proiettare la propria vita nel futuro.
Maternità però fa rima con paternità e con genitorialità…
Il ruolo del partner è fondamentale. Le battaglie femministe hanno involontariamente commesso l’errore di escludere l’uomo dalle scelte generative, esentandolo da ogni responsabilità, delegata esclusivamente alla donna. Una sorta di delegittimazione ideologica dell’uomo dal suo ruolo generativo, riconoscendogli la mera funzione riproduttiva. L’obiettivo era uno smarcamento dal potere maschile, ma si è andati ben oltre le intenzioni. Il supporto del padre è importantissimo, se non c’è stabilità affettiva le donne rinunciano alla maternità. La scelta generativa e la conseguente assunzione di responsabilità si fa in due.
Una sorta di “alleanza uomo-donna” da recuperare?
Sì, all’interno di una relazione affettiva sana e stabile, requisiti importanti anche per crescere un figlio. La genitorialità deve nascere proprio all’interno di un’alleanza uomo-donna che occorre recuperare. L’uomo va coinvolto e responsabilizzato per il bene del figlio e della coppia stessa.