Si stanno moltiplicando ultimamente gli atti intimidatori nei confronti di sacerdoti. In Calabria è stata messa della candeggina nelle ampolline dell’acqua e del vino usate per celebrare l’Eucarestia. E addirittura è stato recapitato un bossolo di arma da fuoco diretto al vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea, mons. Attilio Nostro.
Ma sacerdoti che rischiano la vita per l’annuncio del Vangelo ce ne sono tanti. Tra gli altri don Maurizio Patriciello, parroco della chiesa di San Paolo Apostolo a Caivano e da sempre impegnato sul fronte dell’impegno per la legalità: a marzo 2022, nella notte tra l’11 e il 12, poco prima delle 4, fu fatta esplodere una bomba carta davanti al cancello pedonale della parrocchia. L’11 marzo, tra l’altro, è il compleanno di don Maurizio, a cui è stato deciso di assegnare una scorta. Recentemente il sacerdote ha denunciato che su istigazione di camorristi ci sono state intimidazioni ai fedeli a non andare a messa o i bambini all’oratorio. Il fatto è legato alla grande tensione a Caivano per l’annuncio di sfratti delle abitazioni abusivamente occupate. Lo abbiamo sentito.
Don Maurizio, sono aumentate di nuovo le intimidazioni contro sacerdoti…
La prima sofferenza è la constatazione che la prepotenza non vuol morire, non è una sofferenza a livello personale, ma il fatto che alcuni per prendersi il diritto a essere persone libere, soprattutto se è un sacerdote, devono contrastare tutta questa prepotenza.
Come si vive sotto minaccia?
Ci sono degli agenti che mi accompagnano sempre: è una grazia perché sono sempre in compagnia, ma può essere anche un limite. Ma se questo serve a stare più sereni, Dio sia benedetto.
Oltre al suo caso, si stanno moltiplicando, in varie zone, le minacce e intimidazioni a danni di sacerdoti: perché secondo lei?
Da un punto di vista squisitamente “nostro”, potrebbe essere una “buona notizia”: vuol dire che i sacerdoti fanno il loro dovere. Noi dobbiamo annunciare il Vangelo. Nell’annuncio del Vangelo è insita la denuncia del male.
Il male se lo chiamiamo in modo generico non impressiona nessuno. Se lo chiamiamo con il nome specifico del male che stiamo combattendo - camorra, prepotenza, mafia, mala politica, corruzione - a quella parola esatta le persone si ribellano perché si sentono chiamate in causa. Per i miei confratelli calabresi il fatto che siano arrivati a mettere la candeggina nell’ampollina del vino da consacrare la dice lunga. Altre intimidazioni sono sempre le stesse: bruciano l’auto, mettono la bomba fuori al cancello della parrocchia per mettere a tacere. Ma chi può dire a noi sacerdoti di stare zitti non è ancora nato: solo Nostro Signore ci può dire di stare zitti o di parlare. È una battaglia ma se la combattiamo tutti quanti insieme diventa meno pericolosa per il singolo. La risposta nostra, può sembrare strano, è scritta nel Vangelo: mi riferisco alla preghiera sacerdotale, nel capitolo 17 di San Giovanni. Gesù pregando dice, all’incirca: “Padre, la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa”. Questo è molto importante: noi la chiamiamo comunione.
In che modo la comunione aiuta anche contro le mafie?
Quest’anno sono trent’anni dalla morte di don Peppino Diana. Nel nostro territorio il male si chiama camorra: Peppino Diana è stato ucciso a Casal di Principe, paese che dà il nome al clan dei casalesi. Don Peppino diceva degli abitanti onesti di Casal di principe: “Questa gente ha la sua dignità, ha la sua libertà, nessuno ci deve permettere di mettere i piedi sopra” e qualcuno si è dispiaciuto. E sono successe le solite cose: prima le intimidazioni, qualche “consiglio” giunto attraverso un giro di persone, c’è un’ipocrisia terribile, perché i mafiosi sono innanzitutto dei grandi vigliacchi, non bisogna dimenticarlo mai, non vogliono bene a nessuno, neanche ai loro stessi figli, perché se volessero bene ai figli non indicherebbero loro la via del camposanto o del 41 bis, vogliono solo i soldi. Se dai i soldi, il mafioso ti lascia anche in pace, perché il mafioso non ha piacere a creare confusione perché arrivano maggiori controlli sul territorio, ma quando si sente costretto a farlo mette una bomba, uccide. Ma se un intero presbiterio è ad annunciare il Vangelo allo stesso modo, a denunciare allo stesso modo per il singolo ci sarebbero meno pericoli. Io sono stato uno dei primi ad arrivare sul luogo dove don Peppino è stato ucciso, quando sono arrivato in chiesa Peppino stava ancora là, riverso nel suo sangue, è stata un’esperienza terribile che non ho dimenticato mai, però mi sono fatto la domanda allora e me la faccio adesso, dopo trent’anni: perché a don Peppino sì e a me no? Per quale motivo? Quando sono stato a Brancaccio, a Palermo, a celebrare la messa nella sala da pranzo di don Pino Puglisi, mi sono fatto la stessa domanda: perché a don Pino Puglisi sì e a me no? Questa domanda ce la dobbiamo fare tutti i preti di una regione, di una diocesi: perché? Forse, li abbiamo lasciati troppo soli? Ne abbiamo fatto un bersaglio facile? Sono domande scomode, che potrebbero dare fastidio a qualcuno, ma sono domande che dobbiamo farci tutti quanti.
Nei giorni scorsi lei ha denunciato che sono venuti pochi fedeli a messa e i bambini non hanno frequentato il catechismo.
A Caivano l’altro sabato hanno fatto di tutto perché la gente non arrivasse in chiesa e perché io non celebrassi la messa, io l’ho celebrata lo stesso, c’era poca gente, ma qualcuno è riuscito a passare. Ci sono state 250 ingiunzioni di sgombero degli appartamenti che sono stati occupati illegalmente. Io sto facendo di tutto per stare accanto a loro e per dire come stanno le cose, ma quegli appartamenti sono stati occupati illegalmente, questo è stato possibile perché lo Stato non ha fatto il suo dovere, perché il comune è stato latitante, perché ci sono stati peccati di omissione, però tra questa gente ci sono anche famiglie di camorra, che hanno tutto l’interesse a fomentare la rivolta. Soprattutto donne di queste famiglie hanno iniziato a dire: la messa non si celebra e hanno impedito alle persone di venire in chiesa, io ho celebrato ugualmente, hanno minacciato di farlo di nuovo. Le forze dell’ordine sono state subito avvisate, il prefetto si è messo subito in allerta, le messe sono state celebrate e loro hanno di nuovo minacciato di impedire ai bambini di venire al catechismo. Io sto dalla parte della legalità e del popolo, ma le situazioni sono diverse, la storia è complessa. Sempre camorristi vanno chiamando persone per costringerle a partecipare a manifestazioni e vengono minacciate che debbono manifestare, bruciare i cassonetti. Intimidazioni insopportabili. Io sto girando per le scuole per parlare di bullismo, anche con la mamma di Giò Giò Cutolo. Io dico sempre che tra un bullo e un camorrista il principio è lo stesso, il principio del più forte che fa il vigliacco con il più debole; quando si è veramente uomini, come ha fatto Gesù, ci si inchina davanti al debole e gli si lavano i piedi.
Quindi la ricetta consiste nella comunione e nel non avere paura?
Se avere paura significa più attenzione, più prudenza, anche quando scrivo peso sempre la parola, aggettivo per aggettivo, avverbio per avverbio, se paura vuol dire questo la paura sia benedetta; se la paura paralizza, non mi fa andare avanti, se mi toglie qualcosa è sbagliata. Ci sono i rischi: ma l’anno scorso sui luoghi di lavoro sono morte mille persone. Se volessimo considerare la mia vocazione come un “lavoro” anch’io corro rischi. Certo io vorrei morire a cento anni con la corona in mano, con il crocifisso sul petto, ma poi sarà quello che Dio vorrà.