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Lo scorso dicembre, Papa Francesco, in occasione della giornata internazionale per le persone con disabilità, aveva affermato: “Si riscontrano atteggiamenti di rifiuto che, anche a causa di una mentalità narcisistica e utilitaristica, sfociano nell'emarginazione, non considerando che, inevitabilmente, la fragilità appartiene a tutti”.

 

 

"È importante", invece, "promuovere una cultura della vita, che continuamente affermi la dignità di ogni persona, in particolare in difesa degli uomini e delle donne con disabilità, di ogni età e condizione sociale". 

Queste parole così forti e così vere mi sono venute in mente, leggendo la terribile tragedia del papà 43enne di Castello di Godego, un comune nel Trevigiano, che ha strangolato il figlio per poi togliersi la vita. 

Troppi i commenti e i giudizi facili, su questa terribile storia.

Ma quante volte i genitori di figli disabili si ritrovano completamente soli, con il dolore misto al senso di colpa? Raccolgo spesso confidenze di genitori affranti. Le frasi più comuni: "La vita di mio figlio sarà sempre costellata di fitti appuntamenti in ospedale, di solitudine, di emarginazione, di incapacità di sopravvivere da solo".

O ancora: "mio figlio non avrà mai una fidanzata, né diventerà mai padre, né potrà scegliere dove studiare o cosa fare da grande, non potrà viaggiare né andare in discoteca, non potrà mai difendersi né decidere alcunché, non sarà mai autonomo, dipenderà sempre da me per ogni cosa…".

Ci sono poi i sensi di colpa indotti: da chi ti fa notare come le urla ed il continuo saltellare di tuo figlio sia insopportabile per chi ti vive accanto, a chi nei vari uffici della burocrazia riesce a farti sentire un peso per la società nel momento in cui chiedi per tuo figlio l’aiuto di cui ha bisogno e che gli spetta. Un senso di colpa cui segue la rabbia dell’ingiustizia.

Non giudichiamo dunque un dolore così grande, di un uomo che probabilmente si è sentito molto solo.

La dottrina sociale della Chiesa, ci illumina: "non è una società degna dell’uomo quella che discrimina i disabili e non sa accettare i diversi”. «La qualità della vita all’interno di una società si misura dalla capacità di includere coloro che sono più deboli e bisognosi» e la maturità si raggiunge «quando tale inclusione non è percepita come qualcosa di straordinario, ma di normale», perché «anche la persona con disabilità e fragilità fisiche, psichiche o morali, deve poter partecipare alla vita della società ed essere aiutata ad attuare le sue potenzialità nelle sue varie dimensioni». Il percorso è certamente lungo, pieno di ostacoli.

Il limite in realtà spesso non c’è, ma è solo nella testa. 

Parole che ricordano quelle che un grande prete, precursore illuminato della riabilitazione della persona, don Carlo Gnocchi, era solito dire ai suoi 'mutilatini' disabili di essere consapevoli e quasi 'fieri' della propria particolare condizione. Chi era diventato un mezzo corpo non in grado di camminare perché privo di gambe o chi era rimasto un tre quarti di uomo perché senza una mano o un piede, non doveva farsi compatire: doveva dimostrare a se stesso e agli altri che la propria 'abilità residua' era un’opportunità per mettere in mostra la grande capacità di quella vita restante: superare i limiti e andare oltre, dimostrando coi fatti di non essere diversi, né inferiori, né meno abili degli altri 'normali'.

 

Forum Famiglie Puglia