In occasione della trentesima edizione della Sagra te lu ranu, è intenzione di questa e delle prossime uscite, ripercorrere la storia della manifestazione dalla sua nascita fino ai nostri giorni attraverso il racconto dei parroci che si sono succeduti nei tre decenni.
La sagra, è nata nel 1994 e ha visto avvicendarsi storie del popolo merinese. Dei suoi agricoltori che con passione si occupavano della semina e della raccolta del grano e delle massaie che con amore e dedizione trasformano ancora oggi la farina - tra le altre prelibatezze che si possono gustare tra gli stand della sagra - in pasta, uno dei piatti d’eccellenza non solo della cucina salentina ma dell’intero stivale.
Non sarebbe giusto e completo però non dare voce anche e soprattutto a chi, nel susseguirsi delle edizioni è stato artefice, collaboratore e spesso leader dello straordinario gruppo che ha fatto della Sagra dellu ranu, uno dei più longevi e famosi eventi estivi del Salento. Abbiamo quindi pensato di far parlare i tre parroci che si sono avvicendati nella parrocchia di Merine, partendo proprio da chi, ormai trenta anni fa ha dato il via alla sagra: mons. Piero Quarta.
Don Piero, alle porte della trentesima edizione della Sagra te lu ranu, che emozioni prova riguardando agli anni che l’hanno vista guidare la comunità di Merine?
Quando ho saputo che ci saremmo dovuti vedere per questa intervista mi sono messo immediatamente in silenzio e ho voluto rivivere le sensazioni che ho vissuto al mio arrivo a Merine e della nascita di questa “figlia del popolo”. L’emozione più grande è sicuramente la gratitudine perché attraverso questa esperienza ho maturato e mi avvalgo di uno stile di vita pastorale basato soprattutto sull’attenzione alle persone e al territorio, facendo in modo che da una comunità possa emergere quello che le è consono e vitale, per cui io considero anche la sagra una sorgente inesauribile di vita nuova per Merine. Anche perché la mia esperienza a Merine è stata unica e particolare.
Come nasce l’idea della sagra e del suo nome?
Potrei esordire alla maniera di Pippo Baudo: “La Sagra te lu ranu l’ho inventata io!” – ride – mi dichiarerei a questo punto un vanaglorioso perché la Sagra te lu ranu è un evento straordinario di autogenesi in quanto è stata concepita nel grembo della comunità di Merine da un radicato desiderio di riscatto sociale, morale e religioso. Insomma, nasce da un forte desiderio di rinascere come nuova comunità: si percepiva a pelle un giudizio negativo e discriminante su questa frazione, marchiata dalla situazione sociale e storica di quegli anni. Il mio compito è stato quello che poi dovrebbe essere di ogni buon pastore, ovvero curare le relazioni con il popolo, innamorarsi reciprocamente e ristabilire un rapporto tra pastore e popolo, rapporto ha fatto nascere la Sagra te lu ranu. Sono quindi io che ringrazio il popolo di Merine che mi affibbia sempre il titolo di inventore ma, lo ripeto, come ho ribadito anche in passato: la Sagra te lu ranu è una creatura del popolo di Merine. La scelta del nome non è casuale. Quando si è sentito il bisogno di promuovere questa sagra abbiamo aperto un dialogo, un confronto per trovare il nome adatto e non essere ripetitivi con nomi già utilizzati e dominava, tra le varie denominazioni, la centralità di un alimento. Qui ho voluto condurre la riflessione su un elemento simbolico, chiedendo ai merinesi: che cosa voi ritenete che sia stato frutto del vostro lavoro ma anche dono del cielo in questa terra? Io sentivo dire “vado all’ajera”, “vado a seminare”, “vado a trebbiare”. Allora l’elemento che era riferimento di un frutto della terra ma anche del lavoro era il grano: dono e nutrimento, relazione e condivisione.
Come manifestazione nata dall’ambiente parrocchiale c’è un significato pastorale legato alla stessa?
Per il popolo merinese era necessario avvertire un alleato per essere guidato in questo bisogno di riscatto perché si sentiva un popolo “abbandonato”, non amato. A me è toccato il delicato e felice compito di veder nascere, dare un nome, battezzare e porgere una mano amica fino all’età di dieci anni quando già dire Sagra te lu ranu significava dire Merine, anzi la nuova Merine. Quindi ecco il grano che richiama Cristo, perché Lui ci ha detto che “se il chicco di grano caduto a terra non muore, non produce frutto. Se invece muore produce molto frutto”. Ma il grano richiama anche Maria: a Merine si festeggia la “Madonna dell’Assunta”, la “Matonna beddha” e la sua statua ha nella parte anteriore dell’abito, tre spighe di grano - come la maggior parte delle statue con abiti riprendono questo elemento - perché nel Cantito dei Cantici c’è un riferimento implicito a Maria, quando si dice della sposa “Il tuo ventre è un mucchio di grano”, quindi non solo elemento naturale e familiare ma anche elemento di fede perché richiama il dono della vita di Gesù che si fa nutrimento di salvezza e il ruolo, la missione di Maria che ci ha donato Gesù. Inoltre, la denominazione sagra richiama il sagrato, cioè lo spazio sacro antistante la chiesa ma sagra, da definizione sul vocabolario, vuol dire “festa annuale per celebrare una ricorrenza o un avvenimento importante” in questo caso la rinascita di una comunità.
Quali erano le caratteristiche principali che hanno reso unica la Sagra te lu ranu?
Nel mio primo anno di servizio pastorale a Merine le messe non erano molto frequentate quindi ero io che andavo a trovare i miei parrocchiani in casa ed in più, insegnando religione sul posto, ho conosciuto situazioni particolari, genitori che si confidavano ottenendo la fiducia necessaria per poter agire come tale nei riguardi dei loro figli. Questa confidenza, questa familiarità mi ha riempito di ogni ben di Dio che le famiglie, di loro volontà utilizzavano per ringraziarmi. Ma in svariate occasioni durante l’anno pastorale ho notato questa attenzione alla gratitudine, alla condivisione e trovando tanta provvidenza ho capito che la comunità era generosa e laboriosa perché si trattava sempre di manufatti frutto del loro lavoro. Allora ho intuito che se questa gente sapeva essere grata ciò che mancava era l’opportunità di esserlo e di riconoscerlo gli uni verso gli altri. Quindi l’intuizione che fosse possibile in un luogo comune come la piazza sperimentare la condivisione. Poi creare clima di accoglienza, reciproca e verso tutti che permettesse a chiunque venisse di sentirsi non straniero ma ospite. Da qui il desiderio di addobbare e mettere fuori per la strada le cose che rappresentavano le famiglie, quello che producevano per creare sì attrazione ma per significare “siete venuti ad incontrarci per quello che noi siamo!”. Così come gli addobbi fatti con i tovaglioli di stoffa che richiamavano la tavola, la familiarità o gli stand che erano fatti con i tavoli di casa o della parrocchia. O ancora la continua condivisione di mettere in comune ciò che ognuno sapeva fare bene: il liquore te l’Assunta, li biscotti te la Corona e la pasta fatta per 24 ore consecutive da una sfilza di donne.