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Per la serie di appuntamenti in vista della trentesima edizione della Sagra te lu ranu di Merine, oggi raccogliamo la testimonianza di don Alessandro d’Elia, parroco di Merine dal 2001 al 2012.

 

 

Siamo nel giardino del Centro di pastorale e cultura diocesano “Giovanni Paolo II” e don Sandro è all’opera, proprio come dietro gli stand nelle sere della sagra. Ci spostiamo seduti su una panchina all’ombra dal sole caldo tipico delle mattinate di luglio.

Don Alessandro, che emozioni prova ripensando agli anni vissuti nella comunità di Merine e al primo approccio con la Sagra te lu ranu?

Merine, prima ancora che io arrivassi in parrocchia, era già nota per la sagra quindi sapevo già cosa avrei trovato. Però non conoscevo le persone, i volti, le storie, gli occhi, gli sguardi. Quindi alla fama che accompagnava Merine si è unita anche la conoscenza delle persone: l’incontro è stato splendido perché ho messo insieme le vite dei singoli con la vita della comunità e ho capito che, quella di don Piero è stata un’idea semplice ma che avuto grande respiro perché ha riunito la comunità intercettandone il grande bisogno di famiglia, di stare insieme, lavorare insieme che la comunità emanava. Merine ha sempre sofferto il fatto che fosse una frazione e in più abitata da persone che venivano da Lecce e la sagra è diventata una forma di riscatto sociale, che ha permesso alla comunità stessa di far vedere quello che era in grado di fare e fare molto bene perché di suo ha un elemento particolare: le persone sanno fare tutto dal carpentiere, all’elettricista, l’idraulico, il falegname. Arte del fai da te ricevuta dai genitori che nella Sagra te lu ranu diventa arte. Una grande emozione quindi che mi ha subito fatto capire la voglia di rivincita di una comunità che si è sempre sentita “figlia di un dio minore” e che ha interpretato nella sagra una possibilità di riscatto sociale e anche spirituale perché intorno alla parrocchia le persone si sono ritrovate per lavorare.

 

Qual è l’insegnamento di fede che si può apprendere dalla sagra?

L’idea autentica di parrocchia che non è semplicemente un luogo di culto, un centro di religiosità, di processioni. È anche questo ma c’è soprattutto l’incontro tra le persone che si aiutano e si vogliono bene perché attorno all’idea di sagra c’è anche quella della famiglia che si riunisce, quindi quando uno sta male tutti stanno male, quando uno gioisce tutti gioiscono. Io a Merine manco ormai da dodici anni e ho un ricordo di una famiglia parrocchiale, più che comunità che può sembrare un concetto più astratto, mentre la famiglia indica solidarietà, senso di appartenenza, voglia di essere solidali, uniti. Io stesso in quella comunità mi sono sentito padre, senza volerlo perché arrivavo come parroco ma poi mi sono ritrovato padre di una famiglia, quello che dovrebbe essere una parrocchia. Oggi invece andiamo verso una realtà parrocchiale spersonalizzata, legata all’idea del culto a tutti costi, del devozionismo. Invece Merine ha incarnato e incarna ancora adesso quest’immagine di famiglia che si riunisce attorno ad un’idea che è quella del pane, del grano.

 

Ci hai raccontato della condivisione dei momenti di una comunità, siano essi belli (come appunto la festa, la sagra) e momenti meno belli (come i lutti): il pensiero corre subito verso Luigi Giannone. Che ricordo conservi di lui?

Ancor prima di Luigi morì un giovane di poco più di quarant’anni, Antonio Filograna, a cui abbiamo anche intitolato una via nel Centro pastorale e come Luigi era un uomo che si spendeva molto per la sagra ed andò via per un male in pochi mesi nel 2005: tutti partecipammo a quel dolore. Luigi era un maestro. Ha insegnato tanto anche a me. Era un visionario, sempre più avanti degli altri: guardava le cose proiettandole nel futuro e avendole già realizzate nella sua testa, bisognava semplicemente seguirlo, assecondarlo. La scomparsa di Luigi è stata per tutti un lutto lacerante però come tutte le grandi persone ha lasciato in eredità un metodo che tutti noi - anch’io tutt’ora - porto con me: a volte mi chiedo cosa avrebbe fatto lui in determinate situazioni perché era più di un architetto o un ingegnere e se la sagra ha fatto dei passi avanti è grazie alla sua idea di sagra che fosse traino per i paesi vicini, diventasse modello di festa popolare anche per le altre feste. Quindi al dolore della scomparsa aggiungo un ricordo di persona che ha lasciato un’impronta su cui noi, suoi figli, andiamo avanti seguendo il suo modello di vita e di filosofia del lavoro. Lui continua ad essere vivo anche in chi come me non è più a Merine da tanti anni.

 

Ritornando sulla sagra, don Piero ha detto di averla battezzata e accompagnata fino all’età di dieci anni. Seguendo la sua metafora potremmo dire che tu l’hai seguita nell’età adolescenziale.

Noi l’abbiamo allargata ma è stato facile perché era una realtà che chiedeva di essere allargata: era come una signorina che diventata adolescente aveva bisogno di un nuovo vestito perché quello da bambina non le andavo più, quindi abbiamo semplicemente modellato la sagra su un nuovo corpo. Non abbiamo fatto niente di straordinario in sostanza ma solo assecondato questo bisogno di allargarsi della sagra. Come? Attraverso la pubblicità, i social, il passaparola e semplicemente attraverso l’entusiasmo tanto è vero che faticavamo a contenerla perché le previsioni di parcheggio, acquisto dei viveri saltavano. Quello che avevamo previsto era sempre meno di quello effettivamente consumato, ecco: avevamo contezza che era diventata un evento, non una festa o una data ma un vero e proprio evento che assumeva sempre più dimensioni che uscivano fuori dall’ordinarietà di una programmazione annuale.

 

Vuoi chiudere con un augurio alla comunità di Merine per il raggiungimento di questa trentesima edizione della Sagra te lu ranu?

Sì. L’augurio è di riprendere sempre il ricordo delle origini, guardare avanti pensando al passato perché immagino che a volte la sensazione è anche quella di lasciarsi sopraffare dalla stanchezza, dalle sconfitte perché dietro ad una sagra c’è anche la paura di “perdere”, di andare in deficit, di non accontentare il palato non soltanto culinario ma anche estetico della gente. Quindi c’è sempre stata la tentazione di dire “Basta. Finiamola qui”. Invece l’augurio è che alla fine di ogni festa, così come di questa edizione della sagra, si possa trovare l’entusiasmo di dire “l’anno prossimo ne faremo ancora una ancora più bella”. L’entusiasmo di ritrovarsi comunità, famiglia e bisognosi di portare avanti per altri trent’ anni e trent’ anni ancora questa sagra, per due motivi: il primo perché questa sagra è, togliendo una “r”, una saga perché in questi trent’ anni generazioni si sono avvicendate. Basta guardare le foto delle prime edizioni per capire che è un evento fatto da generazioni che si sono succedute nel tempo ed ecco quindi che il passo dalla sagra alla saga è breve e possa diventare sempre più una saga, una saga familiare del paese, una specie di museo aperto perché guardando a trent’ anni fa è possibile guardare oggi ed al futuro. Il secondo motivo è che i giovani di Merine abbiano l’entusiasmo di prendere in mano questa sagra e portarla avanti nel futuro perché altri dopo di loro, come hanno fatto con noi possano raccogliere questa eredità e portarla avanti.

 

 

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