“Non puoi odiare Dio perché non puoi vederlo, ma c’è”, Cantava Celentano, e poi Guccini con “Dio è morto”, metafora del dolore immenso che sconquassa il mondo, della perdita dei valori, delle guerre, della fame, della miseria e quant’altro.
Baglioni, Jannacci, Masini, Zucchero, Gino Paoli, fino a Ligabue e il suo: “Hai un momento Dio”. Anche Fabrizio Moro ha cantato il suo bisogno di credere.
Dietro ogni canzone batte il cuore di chi la scrive, la canta e l’ascolta. Migliaia di emozioni ci sfiorano, ci segnano, diventano parte di noi. Sono le canzoni dei cantanti che a volte riescono a dire meglio di noi quello che stiamo vivendo… E allora perché non partire proprio dai loro testi per affrontare le tematiche più attuali del nostro tempo? Anche per parlare di fede?
È quello che fa la pop theology. Il Vangelo resta sempre lo stesso, il suo messaggio non muta, ma sicuramente deve essere alla portata del linguaggio della gente, in particolare dei giovani che oggi utilizzano registri comunicativi ben diversi da quelli con i quali la Chiesa propone l’annuncio. Compito della pop-theology è quello di leggere all’interno di questi registri comunicativi (la musica pop, il cinema, il teatro, l’arte, gli eventi culturali) quei messaggi che possono essere rilanciati come sane provocazioni tali da creare, nel cuore di chi ascolta, quel terreno buono dove il seme della Parola può portare frutto.
E non bisogna aver paura di usare linguaggi nuovi e registri nuovi, perché dove c’è l’uomo, deve esserci anche la Chiesa ad annunciare Cristo che è amore. Senza paura.