“Papà, ma allora tu sei un assassino?”. Quella domanda rivoltagli dal figlio all’età di 8 anni rimarrà sempre come una lama nel cuore di Vito Alfieri Fontana.
Anche oggi tanti anni dopo quel momento, non è facile da ricordare per questo ingegnere barese di 72 anni che ha vissuto due vite: la prima da progettatore e produttore di letali mine anti-uomo a capo della Tecnovar, azienda di famiglia economicamente di successo. E poi la seconda, diametralmente opposta: quella da capo sminatore nei Balcani, territorio sconvolto dalle guerre e infestato proprio da quelle armi subdole e micidiali che sono le mine. Vito ha raccontato questa parabola drammatica, sofferta e al tempo stesso intessuta di coraggio e speranza in un libro scritto con il giornalista di Famiglia Cristiana, Antonio Sanfrancesco, dal titolo emblematico “Ero l’uomo della guerra”. In questa intervista con i media vaticani, l’ex produttore di armi convertitosi in operatore umanitario commenta anche le parole di Papa Francesco sul disarmo e lancia un accorato appello a chi, come lui in passato, produce e vende strumenti di morte.
Ingegnere, lei ha detto in questi anni - anche nel suo libro “Ero l’uomo della guerra” - di aver vissuto due vite. Quella del produttore di mine e quella di sminatore, di chi quegli strumenti di morte cerca di neutralizzarli. Lo spartiacque non è arrivato d’improvviso, ma è maturato nel tempo. Innanzitutto grazie a suo figlio…
Quando mio figlio è cominciato a crescere, ha iniziato a farsi e farmi delle domande. Quando casualmente si è trovato faccia a faccia con il fatto che io producessi delle mine, facessi delle armi, mi ha chiesto: “Se fai le armi, allora tu sei un assassino…”. Sono quelle cose che ti fanno capire la percezione che viene dall’esterno di quello che fai. È la cosa più semplice da capire in fondo: chi fa le armi, volente o nolente, aiuta a far del male agli altri. E mio figlio mi ha anche detto forse la cosa più ovvia: “Papà, magari le armi le fanno altri, tante persone nel mondo, ma perché le devi fare tu?”. Queste parole sono state la prima pietra d’inciampo.
Poi nella sua “conversione” ha avuto un ruolo pure don Tonino Bello e in particolare un ragazzo legato proprio al vescovo pugliese presidente di Pax Christi…
Sì, nel 1993, quando parte la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, in quel momento mi arriva un invito a parlare da parte di don Tonino Bello, da Pax Christi, di cui lui era presidente. Aveva scritto nell’invito: “Cerchiamo di trovare un punto di discussione. Possibile che non si possa parlare fra uomini di pace e chi fa la guerra?”. Don Tonino che aveva organizzato questo incontro purtroppo non vi partecipò perché nel frattempo morì. Il suo gruppo però volle tenere questa discussione lo stesso e mi trovai di fronte, non scherzo, a duecento persone che mi interrogavano anche pesantemente. Io risposi senza problemi, fino a quando un ragazzo, un volontario di Pax Christi, alla fine della discussione mi scosse quando chiese: “Ingegnere, lei sarà pure simpatico però la notte, quando va a dormire, cosa sogna? È possibile che lei sogna una bella guerra, è possibile che lei sogna una guerra per vendere tante mine?”.
La sua azienda, la Tecnovar, era una azienda che fatturava miliardi di lire. Un’azienda di famiglia. Il suo cambio di vita ha incontrato anche tante incomprensioni, difficoltà. Ma lei è andato avanti per la sua strada. Cosa l’ha spinta a percorrere un sentiero così difficile?
Quando ti prende il chiodo, il chiodo in testa, il tarlo della coscienza, come si fa a mettere di nuovo mano alla penna sul tavolo da disegno e a progettare qualcosa che può fare del male agli altri? A quel punto non ci riesci più. Perché devo farlo? Effettivamente aveva ragione mio figlio. Certo questo comporta delle incomprensioni, che tu rompi con una parte della famiglia, che ti trovi, non proprio il vuoto attorno, ma capisci che gli altri non vogliono capire… Però, si va avanti.
Cosa ha provato le prime volte che si è trovato dall’altra parte? A guidare, con l’organizzazione Intersos, lo sminamento di aree infestate da mine antiuomo - in particolare nella ex Jugoslavia - simili a quelle che la sua azienda aveva prodotto fino a poco tempo prima?
Ci si sente male perché una parte di te la senti sottoterra. È una strana sensazione, cioè ti senti domandare dentro: “Guarda che hai combinato?”. I primi cinque minuti sono di paura, perché non sai se sarai capace, di andare contro te stesso. Poi, alla fine, la paura passa … Però, all’inizio, è imbarazzante. Mi sentivo veramente male ed ero molto severo con me stesso.
Lei ha raccontato che, nella sua vita di industriale delle armi, partecipava a fiere ed eventi dove incontrava più o meno sempre le stesse persone. Eventi dove non si considerava il male che si faceva con queste armi…
In quelle occasioni non si parlava mai di vite umane. Una mina antiuomo è una mina buona se riesce a perforare una piastra di metallo di 50cmx50cmx5mm. Non si parla di uomini, non ci sono bambini che vengono considerati. Non ci sono soldati, che poi perdono le gambe o la vita… la perforazione della lastra, quello è l’obiettivo e su quello si lavora.
L’epilogo del suo libro si intitola “Il passato che non passa”. Il peso della prima delle due vite si fa sentire anche sulla seconda, inevitabilmente… Due milioni e mezzo di mine prodotte, alcune migliaia disinnescate. Un bilancio impari, annota amaramente. Anche per la sua coscienza…
Sì, se consideriamo una vita sola... Il mio impegno ora è anche a favore di circa 10 mila persone che in tutto il mondo hanno fatto il mio ultimo lavoro, quello di sminatore. Persone che si spaccano la schiena ogni anno, ogni giorno, ogni ora del giorno per levare le mine. Spero di aver dato un contributo anche avendo posto in luce questo problema, avendo incoraggiato questa gente che sta facendo “miracoli” in questi anni. Non parlo solo dei Balcani, parlo dell’Asia, dell’America, dell’Africa, con dei successi incredibili. Quindi, certo il bilancio mio, come persona, è impari, però sono inserito in un gruppo incredibile di gente che sta facendo un grande lavoro.
A proposito di questa ultima considerazione, lei ha anche collaborato con il premio Nobel per la pace Jody Williams a favore della Campagna mondiale contro le mine antiuomo, che portò alla Convenzione di Ottawa. Un accordo citato positivamente da Papa Francesco nella Esortazione apostolica “Laudate Deum”. Oggi non sembra esserci un movimento dal basso, popolare, sul disarmo come avviene per altri temi, per esempio la crisi ecologica…
Diciamo che la Convenzione di Ottawa aveva in fondo un nemico abbastanza limitato. I fabbricanti di mine erano una minima parte e sinceramente neanche difendibili... Le questioni ambientali coinvolgono molte più persone e quindi hanno naturalmente molto più seguito. Io dico però che almeno i cristiani dovrebbero avere sempre in testa - non credo di sbagliarmi – che, nel Vangelo, i pacificatori, gli operatori di pace sono l’unico gruppo umano che Gesù definisce “figli di Dio: “Beati gli operatori di pace perché verranno chiamati figli di Dio”. Dovremmo sempre ricordarcene, è una grossa responsabilità. Potremo essere uno solo, potremo essere 10 mila, però se siamo definiti in un certo modo non possiamo tirarci indietro.
La guerra in Ucraina, la guerra in Medio Oriente e poi tanti altri conflitti dimenticati dalla Siria allo Yemen. Il Papa ha messo tante volte in luce un paradosso: ci si arma per sentirsi più sicuri, ma aumentano le guerre e di conseguenza l’insicurezza globale. Lo ha fatto anche rivolgendosi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede lunedì scorso… Si può spezzare questo circolo vizioso, secondo lei, o dobbiamo rassegnarci a vivere in questa situazione?
Rassegnarsi mai! Purtroppo, però il 2024 è un anno travagliato: ci saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Quindi tutti gli avvenimenti internazionali, secondo me, gireranno intorno a quella situazione, e ci sarà una grande turbolenza internazionale. È chiaro che a un certo punto i conflitti devono smettere, perché le guerre non possono essere infinite, e in quel momento bisognerà interporsi. Avremo un anno difficile, dopo bisognerà rimboccarsi le maniche e cercare di guarire le ferite che noi tutti, come comunità umana, abbiamo inferto ai nostri fratelli.
Il Papa ha anche detto il giorno di Natale che la gente vuole pane, non armi. Madre Teresa aveva levato un appello simile, ricevendo il premio Nobel per la Pace, nel 1979…
Noi dobbiamo essere consapevoli che le armi vengono detenute sì e no dall’1 percento della popolazione quando c’è una guerra. Le armi vengono manovrate, usate o programmate da pochissime persone rispetto ai danni che fanno. Io quello che ho visto andando in questi teatri di guerra, in queste realtà devastate, è che la gente aveva bisogno - come dice il Papa - di pane, aveva bisogno di lavoro, di ricostruire, e non aveva certo bisogno di armi! E questo vale per il 99 percento delle persone. Mi ha fatto sempre impressione questo fatto: che tu potevi mettere assieme ex nemici purché li mettessi a lavorare, cioè che dessi loro un lavoro, una paga adeguata perché potessero tornare con dignità a casa. Allora ho visto proprio spegnersi le antiche rivalità. Con me, nell’attività di sminatore, hanno lavorato ortodossi, cattolici, musulmani, ma anche parecchi atei… E non c’era nessun problema quando una persona collaborava con altre e portava il pane a casa: è quella la prospettiva che la politica dovrebbe avere: distribuire pane invece che armi! Non pane - dico io - regalato o rubato, ma pane guadagnato. Si programmasse del lavoro, bonifiche, ricostruzioni… si programmassero irrigazioni, energie alternative.
“Per dire ‘no’ alla guerra bisogna dire ‘no’ alle armi”, ha detto il Papa il giorno di Natale. “Perché - ha aggiunto - se l’uomo, il cui cuore è instabile e ferito, si trova strumenti di morte tra le mani, prima o poi li userà”. Cosa ne pensa sulla scorta anche della sua esperienza personale?
Io vorrei completare così queste parole del Papa: fare una guerra è come tagliare un albero. Fare la pace è come piantare un albero. Per tagliare un albero non ci metti niente, ci vuole un’arma! Per fare la pace devi piantare l’albero, lo devi seminare, averne cura per vederlo crescere. Quindi, alla sofferenza del momento della guerra segue poi il disagio, la fatica e la sofferenza della ricostruzione. È pazzesco. L’uso delle armi è una follia! Ci sono tutte le possibilità di vivere cooperando anche se la si pensa diversamente. Lavoro e dignità. Insomma, io non so perché non si vuole arrivare a capire questo.
Lei ha oggi 72 anni vissuti intensamente e con un percorso di vita non comune. Cosa si sentirebbe di dire a chi, come lei in passato, produce e vende armi? Perché dovrebbe smettere di farlo, come ha fatto lei?
Io mi rivolgerei più che altro a chi sente di avere una fede. Io ho parlato con molte persone su questo. Se tu mi dici di produrre il motore per un’automobile o il motore di un carrarmato, io non dovrei avere alcun dubbio… Io dico questo: se hai fede, devi essere conseguente. Specialmente noi che crediamo nella Parola di Dio, nella Bibbia, come possiamo odiarci fino al punto di distruggere le speranza degli altri, dei nostri fratelli? Solo questo vorrei dire.
*Vatican news