Formare “buoni cristiani e onesti cittadini”, per vedere i giovani, i suoi giovani, “felici nel tempo e nell’eternità”. Il metodo? Una pedagogia fondata su tre assi: la religione, la ragione e l’amorevolezza. Questo era, ed è, in sintesi, il progetto educativo di San Giovanni Bosco.
Un progetto al quale il Santo torinese (la cui festa ricorre il prossimo 31 gennaio) dedicò ogni suo respiro, tutte le sue forze, ogni attimo della sua vita. E che, partendo da un piccolo prato di Valdocco, (un quartiere alla periferia di Torino), fece nascere una congregazione conosciuta in tutto il mondo: i Salesiani (nome derivato dal Santo cui don Bosco la volle dedicare: San Francesco di Sales, in virtù della sua dote particolare: la dolcezza).
Si diceva prima ragione, religione e amorevolezza.
Ragione voleva dire per il santo educatore, apertura al dialogo con una generazione, quella del suo tempo (ma anche quella dei nostri tempi) che di voglia di dialogare ne aveva (e probabilmente ne ha ancora) poca. Don Bosco era consapevole, ancor prima di tutti gli studi successivi sulla natura dell’adolescenza, che le chiusure, le resistenze, le opposizioni dei giovani non erano un rifiuto del mondo e dei valori. Essi, piuttosto, celavano (e celano) la richiesta di ascolto, custodivano (e custodiscono) un appello rivolto al cosiddetto mondo degli adulti maturi, per chiedere riferimenti, accoglienza, protezione e promozione. All’interno di un progetto negoziato e condiviso, che può nascere soltanto dall’ascolto: “chi si sente amato ama. E chi ama ottiene tutto, specialmente dai giovani”. Questo ripeteva don Bosco ai suoi collaboratori. Insegnava loro a non aver paura delle novità provenienti dai più piccoli, perché era consapevole che essi custodivano i segni di un progetto più alto.
Per tali motivi, nel modello educativo di don Bosco, la ragione si coniuga all’amorevolezza: un atto di accettazione incondizionato, aperto, un’apertura di credito gratuita, capace di suscitare nei destinatari non soltanto l’accettazione, ma anche il coinvolgimento nella proposta formativa. L’amorevolezza, nella pedagogia di don Bosco, dice lo sguardo che si posa sull’altro senza giudicarlo, quello sguardo che consente all’altro di sentirsi riconosciuto, accattato, valorizzato. Non perché ha offerto prestazioni eccezionali, ma semplicemente perché è lui, perché è uomo, perché creatura di Dio.
Per questo, nella visione di don Bosco, la religione non era, e non è, soltanto confessionalità e ritualità. Essa si pone, piuttosto, come una risorsa che si genera nel legame (da “religare”, appunto), con chi è di fronte e con Chi sta più in alto, nella decisa convinzione che, l’educazione è importante, ma alla fine, chi salva l’uomo è il Signore Dio, padre del mondo e dell’umanità.
Chi si reca a Valdocco, dove è sorto il primo oratorio, può ancora oggi visitare la cameretta di don Bosco, quella dalla quale tutto ha preso inizio. Un piccolo scrittoio, “le finestre aperte sulla luce del tramonto”, e un fotografia, tra le tante, che lo ritrae sul suo letto di morte; sul suo viso, “tante rughe quanti sono i giorni della vita”; un viso, però, “stanco ma sereno”, come chi sa di aver accolto il progetto del Signore e di averlo realizzato nella sua vita (i virgolettati sono alcuni versi di una nota canzone su don Bosco – intitolata “don Bosco e noi” – molto conosciuta in ambiente i salesiano).