Pubblichiamo una bella (anche se lunga) testimonianza di mons. Gjergj Meta. È il primo vescovo albanese, cioè residente in Albania, ad essere ordinato dopo la persecuzione del regime ed è succeduto nel 2017 al “nostro” mons. Cristoforo Palmieri alla guida della diocesi di Rrëshen.
Mons. Meta è anche il vescovo ordinario più giovane al mondo, infatti ha solo 43 anni. Nato a Durazzo nel 1976, Meta dopo aver compiuto i suoi studi in Albania, si è trasferito in Italia dove nel 1994 è entrato nel seminario arcivescovile di Bari per frequentare un anno propedeutico. Dal 1995 al 2000 ha poi seguito i corsi di preparazione al sacerdozio presso la Facoltà di Teologia del seminario regionale di Molfetta. Ordinato sacerdote il 21 aprile 2001 per l’allora diocesi di Durazzo-Tirana, mons. Meta ha conseguito la licenza in Diritto canonico presso l’Università Gregoriana a Roma. Dal 2009 al 2012 è stato portavoce della Conferenza Episcopale albanese. Papa Francesco lo ha nominato vescovo di Rrëshen il 15 giugno 2017 accogliendo la rinuncia per raggiunti limiti d’età di mons. Cristoforo Palmieri.
In questa testimonianza Meta racconta il Mercoledì delle Ceneri appena trascorso nella sua diocesi e non manca anche di esprimere le sue riflessioni sulla Quaresima appena iniziata.
“Non penso ci sia stato un altro vescovo, o se c’è stato, io non lo conosco, che abbia celebrato nella sua Cattedrale da solo, senza un concelebrante prete, il Mercoledì delle Ceneri. Questo non perché i nostri sacerdoti non amino il loro vescovo, ma perché sono pochi (6 in tutto) e tutti erano nelle loro parrocchie e villaggi.
Stamattina mi sono svegliato alle 6. Mi sono fatto la doccia e profumato per bene, secondo il dettato evangelico. Dopo la preghiera del mattino, in cui ho apprezzato specialmente la lettura dal profeta Isaia sul vero digiuno, mi sono messo in auto e sono andato a prendere le suore che vengono con me nei villaggi. Questa volta erano con me, oltre le suore vincenziane, anche due suore di Madre Teresa di Calcutta che hanno intenzione di aprire una casa in diocesi. Per strada preghiamo il rosario. Lo faccio sempre, con le persone che sono in macchina con me.
Il primo villaggio si chiama Simon. Dista un’ora quasi da Rrëshen dove io risiedo. La strada è per metà asfalto e per metà terribile. Trovo la chiesa chiusa: non avevamo avvisato l’uomo che apre e chiude la chiesa ogni volta che io vado per la messa (ogni due settimane). È stata una mia svista, pensando che lo avessero avvertito le suore. Riesco a rintracciarlo, lui arriva e ci apre la chiesa: il pavimento è pieno di mosche morte. Capita spesso in alcune chiese. Suono la campana per avvisare la gente, nel frattempo puliamo la chiesa e prepariamo tutto per la celebrazione. Iniziamo il rosario, il secondo. Niente messa, solo liturgia della parola e imposizione delle ceneri.
Oggi, di messe, ne devo celebrare altre quattro. Penso che non verrà nessuno, invece mi sbaglio. Arrivano 5 donne e una bambina, l’unica bambina di quel villaggio che ormai conta solo più 15 famiglie, dalle 150 che aveva 15 o 20 anni fa. La bambina viene insieme alla maestra, l’unica maestra del villaggio che il ministero ha assunto per quell’unica bambina.
Tra suore, il sacrestano, le donne e la bambina siamo quasi 10 persone. Ma io faccio come se fossero 100, anzi 1000 presenti. In alcune piccole buste di plastica ho messo un po’ cenere, in modo che chi vuole possa portarsela via. Qui da noi si portano le ceneri benedette a casa per poterle imporre a chi non è stato a messa. Abbiamo letto le Letture ed il Vangelo. Poi le ceneri. Quelle ceneri fino a ieri sera erano un legno, un tronco, che ho bruciato nella stufa a legna e che, a sua volta, era stato un albero di quercia alto e bello. E quest’albero è stato anche un alberello e l’alberello un seme nato dalla terra, dalla polvere, dalle ceneri. Sembra un po’ il tragitto della vita, spiego nella mia omelia e tutti annuiscono pensierosi, forse pensando alla propria, di vita. Mi sono fatto imporre le ceneri da una suora e poi io ho imposto le ceneri a tutti, secondo il rito.
Il secondo villaggio è Kaçinar. Dista circa mezz’ora dal primo villaggio. La chiesa lì è una delle più grandi ed antiche della diocesi. Non è stata distrutta durante il comunismo, ma usata come deposito. Quando apriamo la porta troviamo una brutta sorpresa. A causa del vento forte di qualche settimana fa, una tromba d’aria ha scoperchiato una parte del tetto. La chiesa è piena di polvere, fango, foglie e rami secchi entrati da fuori. Insieme alle suore e a qualche donna del paese puliamo e prepariamo per la messa. La gente arriva: circa 50 persone, la maggior parte donne.
L’usanza del paese è quella di far celebrare messe per tutti gli abitanti del villaggio, vivi e morti. Donano offerte per quanto possono e vogliono che, in quella messa, si ricordino insieme i nomi di tutti. Desiderano sentire i loro nomi. Non vogliono una messa esclusiva, solo per il loro defunto, ma è importante che si preghi per tutti e si menzioni il nome di ciascuno. È questo uno dei villaggi più poveri e più abbandonati della zona, ma la gente è generosa: in mezzo a loro un sacerdote vivrebbe la povertà evangelica, ma non soffrirebbe mai la fame. Anche qui ripropongo l’omelia sul ciclo della vita e impongo le ceneri, ma celebro la messa. Due ragazze leggono le letture e qualcun’altra la preghiera dei fedeli. Bambini non ce ne sono, sono a scuola.
Ritorniamo. Per strada abbiamo ancora un altro villaggio che si chiama Bukmira. Forse vuol dire buon pane. È stato un crocevia di passaggio di montagna che collegava vari villaggi e zone. La gente stanca si fermava nelle famiglie del paese, che li accoglievano secondo la tradizione. Qui ci aspettano e siamo leggermente in ritardo. La chiesa è ben pulita, se ne prende cura Davida. È malata di tumore e combatte ogni giorno; è poverissima, ma si occupa comunque della chiesa. Non vuole mai denaro per il servizio che svolge, non chiede nulla, solo un po’ di cibo per i figli una volta al mese. Anche qui sono generosissimi. Bukmira ha delle belle vigne e l’uva di Bukmira è famosa in tutta l’Albania, così dopo la messa spesso mi portano delle bottiglie di vino o grappa fatta da loro. Celebro messa e imposizione delle ceneri. Gente raccolta e silenziosa. C’è fede.
Dopo questi tre villaggi devo andare dalla parte quasi opposta della diocesi, ma prima torno a casa e lascio le suore. Una piccola pausa e parto per Malaj. Lì devo celebrare alle 15.30. Mi servono quasi 30 minuti per arrivarci e poi alle 17.00 devo essere in Cattedrale per la messa solenne. Continuo a guidare sempre io. Non solo perché mi piace, ma anche perché un autista non potrei proprio permettermelo.
Un’altra comunità di suore mi accompagna. Sono Collegine della Sacra Famiglia, una fondazione palermitana: due dalla Tanzania e una italiana. Bravissime, un dono per la diocesi, soprattutto per la loro semplicità e vita povera che fanno. All’arrivo troviamo la chiesa aperta e alcune donne hanno già iniziato il rosario. Arrivano molte altre persone. Celebro la messa. La terza per oggi. Mi dispenso da solo per il numero delle messe celebrate. In fondo sono il vescovo.
In chiesa c’è anche Bardhok. Durante il comunismo due fratelli di Bardhok sono morti in prigione. Uno era sacerdote, dom Anton Doçi. La sua tomba è all’entrata della chiesa di Malaj. Alla fine della messa mi dice: se vieni più spesso siamo più contenti, perché ci celebri la messa. Ed io scherzando gli dico: Bardhok, ti ordino prete, così puoi celebrare la messa tu per il villaggio. Sorride, ma non dice no. Chissà un giorno. Non forse Bardhok, che è un po’ troppo anziano, ma altri…
Ora sento un po’ di stanchezza, ma devo ancora celebrare un’altra messa, questa volta nella Cattedrale di Rrëshen. E devo essere entusiasta, energico, fresco: è la Cattedrale. Arrivo giusto in tempo. Mi aspetta suor Virginia, che da un anno quasi sta facendo ‘il parroco’ del duomo. Un dono, lei e la sua comunità. La chiesa è piena, la gente sta anche in piedi. I ministranti hanno preparato tutto, incenso incluso. Devo fare da celebrante e da cerimoniere. Qualcuno dei ministranti più grandi sa cosa fare e mi aiuta. Forse lo posso preparare ad essere un cerimoniere. Alla fine della messa presento le suore di Madre Teresa, per la prima volta nella nostra Cattedrale, e la gente le accoglie con grande calore.
La chiesa è piena di giovani. Al termine della messa faccio un appello: ‘Ecco, vedete ragazzi, oggi ho fatto 5 celebrazioni per il Mercoledì delle Ceneri. Sono contento e felice anche se un po’ stanco. Quando vado nei villaggi mi riempio di vita, perché incontro tante persone. Eppure, come vedete, sono da solo sull’altare anche oggi. Non ci sono preti. La nostra gente ha bisogno di noi, il Vangelo ha bisogno di essere annunciato. Se oggi ascoltate la sua voce non indurite il vostro cuore. Accettate di servire il Signore e i nostri poveri fratelli e sorelle qui nella nostra diocesi’. Sicuramente hanno capito quello che ho detto. Per il resto, ci pensa il Signore.
*vescovo di Rrëshen (Albania)