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I giovani vivono “raccontandosi” continuamente, ma non sono capaci di “sentire” profondamente. Ne è convinto fratel Michael Davide Semeraro, monaco benedettino, che “rilegge” il rapporto tra i giovani e la preghiera, una delle tre pratiche tradizionali della Quaresima. “Nei giovani c’è una disaffezione alla preghiera dovuta alla mancanza di iniziazione ad essa” da parte di noi adulti, la tesi di fondo.

La Quaresima è un tempo per riscoprire la preghiera come “scuola di vita”. Come vivono i giovani di oggi il rapporto con la preghiera?
Nei giovani c’è una disaffezione alla preghiera dovuta alla mancanza di iniziazione ad essa. È una mancanza di responsabilità di noi adulti, nella trasmissione della fede. Con i giovani, a volte, privilegiamo la pratica sacramentale e non trasmettiamo la sensibilità alla trascendenza. Così facendo abbiamo lasciato un vuoto, e i giovani hanno finito per lasciare i sacramenti, perché non li raggiungono, o hanno abbandonato la Chiesa affidandosi ad altre realtà. I giovani, invece, manifestano un grande desiderio di preghiera, ma non in modo tradizionale: molti di loro vivono esperienze di preghiera molto forti e significative, basti pensare al flusso che registrano gli incontri di Taizé. Mentre le parrocchie si svuotano della presenza giovanile, ci sono altri giovani che frequentano i monasteri, non solo cattolici, anche buddisti o zen. C’è, infine, una parte di giovani che coltiva una vita spirituale intensa, e questo è un segno di speranza.

Il primo passo per pregare, molto evidente nell’itinerario quaresimale, è rientrare in noi stessi per poi fare spazio a Dio: i giovani di oggi sono abituati a questo “faccia a faccia” con la propria coscienza?
No. I giovani sono continuamente collegati con l’esterno: vivono “raccontandosi” continuamente, si mandano messaggi, ma non sono abitati a “sentire” profondamente. Quando vengono nei nostri monasteri, facciamo percepire loro cosa significa spegnere il cellulare, stare insieme in silenzio, condividere una preghiera. I giovani sono continuamente bombardati da qualcosa che proviene da fuori: è come se non avessero tempo per metabolizzare la loro vita interiore. Saper coltivare il rapporto con se stessi è ciò che permette agli uomini una dimensione umanizzante: la gratitudine, come consapevolezza di far parte di un mondo più grande, e la solidarietà, come responsabilità verso i fratelli e la natura, sono i frutti più importanti della preghiera. La mobilitazione dei giovani di tutto il mondo per il creato, ad esempio, a cui abbiamo assistito in questi giorni è una bella mobilitazione, ma bisogna pagare il prezzo di questa sensibilità. La Quaresima può essere un’importante scuola di sobrietà nell’usare il mondo: abbiamo bisogno di molto meno di quanto ci convincono di avere bisogno. Non basta protestare, bisogna cambiare stile di vita.

Riscoprire, tramite la preghiera, il nostro rapporto con Dio è un appello alla responsabilità, a non fuggire dalla realtà. Noi adulti, su questo versante, diamo il buon esempio ai giovani?
Qualche volta sì, qualche volta no. Abbiamo la tendenza a proteggerli. La preghiera è fare i conti con la realtà, con i nostri limiti e le nostre responsabilità. Quando preghiamo cadono le maschere e le sovrastrutture, perché la preghiera è esigente. Il mondo adulto ha voluto evitare la sofferenza alle nuove generazioni, ma ha perso l’occasione di iniziarli alla generosità della vita. I giovani di oggi vivono in un mondo in cui sembra che tutto è facile, tutto è dovuto, e quando si scontrano con la sofferenza non sono preparati. Pregare è fare i conti con il proprio limite, altrimenti cadiamo in un solipsismo umano che crea disarmonia con le persone. Noi adulti, invece, non educhiamo i bambini al gusto della preghiera: ci accontentiamo di averli tra i banchi della chiesa, ma senza iniziarli alla vita interiore. Basti pensare alla messa nelle parrocchie: la prima cosa che si dovrebbe respirare, partecipando all’Eucaristia, è il silenzio, che invece non viene quasi mai coltivato nelle nostre celebrazioni. La preghiera interiore si basa fondamentalmente sul silenzio: già da bambini, i nostri ragazzi dovrebbero imparare a gustare questo silenzio, a sentirne il profumo, l’eleganza. Non basta insegnare loro a stare composti durante la messa, bisogna insegnare loro che il nostro corpo è un luogo spirituale.

La seconda dimensione della preghiera è quella comunitaria. Uno dei deficit messi in evidenza anche dal Sinodo è il deficit di ascolto delle nuove generazioni, da parte del mondo adulto. In che modo la Quaresima, come cammino “di popolo”, può aiutarli a sentirsi maggiormente “parte” della comunità cristiana?
Tutte le volte che viviamo qualcosa di intimo, abbiamo bisogno di condividerlo: ciò vale per tutte le esperienze forti, belle, difficili, e vale anche per la preghiera. C’è una circolarità per cui la preghiera comunitaria crea il desiderio della preghiera personale, e la preghiera personale alimenta il desiderio della preghiera comunitaria. La preghiera comunitaria diventa così il luogo di autenticazione della propria vita spirituale ed evita il rischio di ripiegarsi su se stessi. Nel monastero, queste due realtà si illuminano e si autenticano a vicenda per scongiurare il rischio di un intimismo egoista, quasi narcisista, e di un’esteriorità fine a se stessa. Sentirsi parte di un popolo comune, camminare verso la stessa méta ci permette di uscire dall’angoscia che deriva dal sentirsi abbandonati a se stessi. Per quanto le prove della vita siano difficili, l’appartenenza e la condivisione del passo rendono più facile il cammino.

 

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