Tra i vari pii esercizi con i quali i fedeli venerano la Passione del Signore, specialmente nel periodo di quaresima, quello della Via Crucis spicca in maniera significativa perché è una delle forme più radicate e praticate dal popolo di Dio.
Nasce per ricordare il cammino doloroso percorso da Gesù nella sua vita terrena, da quando egli e i suoi discepoli, «dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli ulivi» (Mc 14, 26), fino a quando il Signore fu condotto al «luogo del Golgota» (Mc 15, 26), fu crocifisso e sepolto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia (Mc 15, 46). Un cammino duro, faticoso e di estrema sofferenza, ma anche segnato da incontri e sguardi tra Cristo e i suoi amici, i nemici, o persone capitate in quel luogo e momento quasi per caso, come il Cireneo.
In questo “pellegrinaggio”, le cui fonti sono i Vangeli e la tradizione popolare con i pellegrinaggi nella Terra santa, Cristo soffre e offre la sua vita per riscattare e salvare il mondo.
Alla fine del IV secolo, la pellegrina Egeria ci offre alcune notizie circa la costruzione di tre edifici sulla cima del Golgota: l’Anastasis, la chiesetta ad crucem, il Martyrium. Ella attesta che a Gerusalemme, la città della Via Crucis storica, si praticava una processione nei luoghi della Passione di Cristo, una processione che costituisce la forma embrionale di quella che in seguito sarà la Via Crucis. La rappresentazione dei vari episodi dolorosi accaduti lungo il percorso contribuiva a coinvolgere gli spettatori con una forte carica emotiva. Grazie ai pellegrini che si recavano a Gerusalemme a visitare i luoghi della vita di Cristo, tale processione fu riprodotta dai fedeli, una volta rientrati nelle rispettive città.
Dalla fusione di varie devozioni sorte nel Medioevo, si sviluppò la Via Crucis nella sua forma attuale: la devozione alle «cadute di Cristo» sotto la croce; la devozione ai «cammini dolorosi di Cristo», che consiste nella processione da una chiesa all’altra in memoria dei percorsi di dolore compiuti da Cristo durante la sua passione; la devozione alle «stazioni di Cristo», ovvero ai momenti in cui Gesù si ferma lungo il cammino verso il Calvario, costretto dai carnefici, o stremato dalla fatica e dalle ferite oppure nell’incontro con le donne e gli uomini lungo il suo cammino di dolore.
Tale forma di Via Crucis, preparata grazie alla devozione di San Bernardo di Chiaravalle (+ 1153), di San Francesco d’Assisi (+ 1226) e di San Bonaventura da Bagnoregio (+ 1274), si diffuse grazie all’impegno di San Leonardo da Porto Maurizio (+ 1751), frate minore e instancabile, fu approvata dalla Sede Apostolica ed arricchita da indulgenze.
La Via Crucis, così come configurata attualmente con le quattordici stazioni, è attestata in Spagna nella prima metà del XVII secolo, soprattutto in ambienti francescani. Dalla penisola iberica essa passò prima in Sardegna, allora sotto il dominio della corona spagnola, e poi nella penisola italica.
La pratica del pio esercizio della Via Crucis sostiene e incrementa la spiritualità cristiana perché ne richiama non poche caratteristiche: la concezione della vita come cammino o pellegrinaggio; come passaggio, attraverso il mistero della Croce, dall’esilio terreno alla patria celeste; il desiderio di conformarsi profondamente alla Passione di Cristo; le esigenze della sequela Christi, per cui il discepolo deve camminare dietro il Maestro, portando quotidianamente la propria croce (cf. Lc 9, 23).
Se sotto il profilo artistico l’iconografia della crocifissione dei secoli XII-XIII passa dalla rappresentazione del Christus triumphans al Christus patiens, sotto il profilo teologico «nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta» (Salvifici doloris, 19). Nella prospettiva cristiana la sofferenza si riveste di una connotazione salvifica, se accolta e vissuta come partecipazione alla Passione e Morte di Cristo, che ha redento l’umanità offrendo se stesso come vittima pura e immacolata sull’altare della Croce.
Guardando, dunque, alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, rappresentata nel momento apice del suo dolore, il cristiano sa che la sofferenza e la morte sono segni profetici, che si riempiono di senso proprio grazie al mistero pasquale di Cristo. Quando la sofferenza e la morte sono chiuse in se stesse, portano alla disperazione, ma se sono orientate ad un orizzonte di vita, aprono alla speranza. E l’orizzonte è la vita eterna, quella vita inaugurata dal Crocifisso Risorto che risorge con il suo corpo glorioso, ma segnato allo stesso tempo da quelle “ferite” che, per la potenza dello Spirito, diventano “feritoie” di luce e di speranza.