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Per la Chiesa, è tempo di “creare una cultura diversa” e di accettare le sfide che il momento attuale propone. Questo implica anche un ripensamento della figura del sacerdote, chiamato ad essere più leader che manager, in mezzo al popolo più che davanti ad esso, capace di “essere vicino” e di non lasciare nessuno ai margini.

Dell’identità e del compito dei preti oggi abbiamo parlato con don Paolo Asolan, preside del Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis che, con il Servizio diocesano per la formazione permanente del clero della diocesi di Roma, ha organizzato all’Università Lateranense il Convegno su “che cosa lasciare e che cosa tenere di quello che si è ereditato dalla tradizione e di quello che oggi il mondo offre”.

Don Asolan, chi è il prete in una Chiesa in uscita?

Ha i compiti che sono quelli di ripresentare alcuni caratteri del ministero di Gesù, ma dentro un contesto dove, rispetto ad accentuazioni di un passato in cui era sufficiente che il prete celebrasse i sacramenti e fosse al centro di una comunità omogenea con la società e con il mondo di cui era parte, oggi invece si trova con il compito di evangelizzare e di far compiere tutta una serie di passi che sono precedenti ai sacramenti e che sono la fede, l’adesione a Gesù e la vita in una comunità cristiana. C’è la necessità di accettare la sfida di creare una cultura diversa e questo comporta priorità diverse, anche un modo di intendere la Chiesa, un modello di Chiesa in cui non c’è solo azione del parroco, ma dei laici, della famiglia, di tutti coloro che in quanto battezzati partecipano di questa missione. Perché è una missione che coinvolge e riguarda tutti.

C’è differenza tra l’essere prete in una piccola realtà o in una metropoli?

Sì, la diversità è data dalle relazioni che le persone riescono a stabilire o a non stabilire tra loro. La grande città si differenzia in sottosistemi - il Papa in Evangelii Gaudium vede veri e propri ghetti, mondi dentro al grande mondo - dove non è scontato nemmeno il risultato finale di questi rapporti in termini di relazioni sociali. Ci sono delle differenze negli ambienti, anche delle periferie, e tutto affida compiti diversi.

Lei parla di leadership: cosa significa questo per un sacerdote?

È solo un’analogia con termini che vengono dalle scienze dell’organizzazione per dire che in questo momento non bisogna tanto essere preoccupati di organizzare il presente, ma di progettare e orientare il futuro. Bisogna capire dove sta andando il mondo e in che modo questo andamento del mondo può essere raggiunto dal Vangelo, da una direzione che è Gesù Cristo e da un modo di vivere dove Dio agisce e trasforma il mondo attraverso l’azione della Chiesa, non soltanto organizzando cose da fare ma vivendo di questa relazione. Non si tratta quindi di organizzare bene dei servizi religiosi da offrire ma di dare significato alle esperienze fondamentali della vita in modo che la vita quotidiana della gente vada verso il Signore.

Non basta dunque essere un bravo manager?

Il manager è qualcuno che pensa di dover fare delle cose adesso, di rendere funzionante una macchina complessa. Questa cosa funziona quando c’è la macchina complessa, ma siccome siamo a rischio di estinzione macchina, fermarsi al maquillage della macchina è perdere tempo perché non è questo il problema. Non si tratta di renderla migliore adesso, ma fare in modo che esista ancora nel futuro.

 

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