La fotografia analogica si realizza con un rullino, negativi e camera oscura, ed esiste ancora. Pensando e Lorenzo Papadia, leccese, classe 1981 continua ad onorare la tradizione ad alta fedeltà.
Lorenzo, che cos’è per te la fotografia?
Per me qui si apre un mondo. È un piccolo universo in cui rifugiarmi e uscire esattamente per come sono, perché mi consente di essere riflessivo, di essere me stesso, di provare a mostrare delle sensazioni che diventano, poi, immagine, mostrano come vedo le cose. È un modo per osservare dal mirino qualcosa che voglio fare mia. Che voglio selezionare e che voglio far rivivere all’interno di un’inquadratura. Creo memoria di eventi, ma diventa anche, attraverso i corsi di fotografia, nell’insegnarla agli altri, un modo per lasciare un qualcosa alle persone, una condivisione del sapere con gli altri.
E la fotografia analogica?
La fotografia analogica, per me, ha rappresentato l’inizio. Il primo approccio è stato proprio con il mezzo meccanico che mi ha attratto, e mi ha consentito per pura curiosità, di indagare il mondo. Quindi il rapporto con l’oggetto è diventato rapporto con il supporto, cioè con la pellicola. Questo mi ha consentito di giocare, sperimentare, di mettermi alla prova, con quelle che possono essere le nozioni di chimica, scoprire la magia della stampa in camera oscura. E, comunque, di fare un po’ tutto da me, perché sono un’autodidatta. Poi, nel corso del tempo, il rapporto con la pellicola è diventato anche qualcos’altro, con un rullino che contiene 24, 36, 10 pose, quindi, un numero di pose molto limitato, mi ha consentito di rendere il mio processo molto asciutto e sintetico e scattare quando sentivo veramente che era il momento. Questo processo l’ho portato anche nel digitale. Per me la fotografia è un grande gioco, una continua scoperta, perché escono nuovi materiali, e continua questa sperimentazione.
Qual è la tua ultima creazione fotografica?
Il mio ultimo lavoro si chiama “Adriatic Cost”, ed è un lavoro sul Mar Adriatico. Non una semplice copia del paesaggio, ma una reinterpretazione che ha guardato, un po’ ai miti e alle leggende che hanno coinvolto i territori della Puglia. L’idea è quella di ricercare la luce del giorno. Scattavo prima della pioggia e dopo, volevo creare un po’ di caos all’interno dell’immagine, un caos di sottofondo che riporta un certo silenzio, perché le immagini per quanto tenebrose e cariche di nuvole risultavano silenziose.
Ti ispiri a qualcosa quando scatti le tue foto?
Spesso posso ispirarmi ad un racconto, un’ idea, e posso mischiare anche vari linguaggi, come quello della letteratura, della pittura, del disegno, che mi fanno venire delle idee che riporto in fotografia, questo è piu’ una parte progettuale, del cui punto di vista personale sul campo, mi lascio ispirare dalla sensazione che ho in quel momento, cerco di avere un approccio forse poco ragionato, perchè è entrato a far parte del mio modo di guardare le cose e mi affido molto ai miei sensi.
Hai in programma una mostra fotografica?
Al momento no, mi piacerebbe poter organizzare, comunque, un evento, non appena la pandemia, si spera, finirà perché mi piacerebbe dare la possibilità al mio lavoro che è uscito lo scorso anno, di venire fuori sulla carta stampata, su della carta fotografica, e coinvolgere quanta più gente possibile.
Quando hai iniziato a scattare? Ti ricordi?
Ho iniziato a scattare dopo i 20 anni, l’anno preciso non me lo ricordo, ma ho sempre utilizzato la macchina fotografica in quelli che potevano essere i momenti che volevo veramente fermare come ricordo, e quindi anche nelle gite scolastiche quando ero più piccolo, il desiderio di avere una macchina fotografica con me, è sempre stato forte, ma non c’era nessun tipo d’intenzione artistica in questo gesto, ma semplicemente, che tali foto rimanessero come ricordo nella memoria, e questo mi succede ancora, ed è per me la funzione fondamentale che ha questo strumento: fermare nel tempo qualcosa di cui rimanga una memoria. Mi piace scattare molte fotografie in pellicola alla mia famiglia, perché so che esiste il negativo e saranno sempre lì ferme se qualcuno le vorrà consultare. L’approccio al mezzo fotografico è avvenuto dopo i vent’anni in maniera piu’ strutturata, più con un certo desiderio e consapevolezza rispetto a quello che volevo fare prendendo una vecchia Yashica che avevano i miei genitori, che non utilizzavano più. Quindi stiamo parlando già, del periodo in cui il digitale era arrivato, prime macchine compatte, ma a me attraeva molto il mezzo meccanico, quindi. ho iniziato a prendere questa macchina che aveva 2-3 obbiettivi, ora non ricordo quanti, e ho iniziato a fare le mie prove nella città.
Esiste uno scatto a cui sei maggiormente legato?
Non so, se c’è uno scatto a cui sono maggiormente legato, forse sì, Si tratta di una foto con all’interno dei biliardini, con i loro colori con una restituzione dello spazio che è molto teatrale, anche un po’ metafisico, perché c’è una certa perfezione formale. Probabilmente è stato uno scatto in un momento in cui penso di essere stato consapevole di ciò che effettivamente volevo fare, cioè di come stavo guardando le cose. Ecco, in quel momento mi sono reso conto di ciò che effettivamente volevo fare. Quell’immagine, fa parte di un progetto che si chiama “Fade point”, in italiano “Punto di scomparsa o trasparenza”, attraverso cui ho avuto una visione più matura e consapevole di ciò che mi consentiva di guardare il mondo in maniera diversa.