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In una società industrializzata e laicizzata si è perduto l’aspetto del ‘sacro’, il legame che univa l’uomo della terra alla divinità.

 

 

 

Quell’antico significato consolidava il rapporto esistente soprattutto tra il contadino e il cielo che costituisce il patrimonio orale e scritto costituito da proverbi, modi di dire, canti e fiabe: un aspetto di puro folklore locale, presente nel Salento ma anche in tutte le regioni italiane.

Natale cade nel giorno del solstizio d’inverno che segna la massima declinazione del sole e della natura invernale, ma è anche il giorno a partire dal quale la luce comincia a rubare tempo alle tenebre. I proverbi seguenti ribadiscono questa peculiarità: de Natale alla Strina nu pete de caddhrina, da Natale alla Strenna (capodanno) il giorno (la luce) si allunga quanto un passo di gallina; de Natale alla Candelora la sciurnata se llunghisce te n’ora, da Natale alla Candelora la giornata si allunga di un’ora; de Natale lu giurnu pare, a Natale (la luce del) il giorno si nota, e così via.

La luce, quindi, interessava particolarmente il contadino che, più che alla terra, guardava il cielo per trarre auspici e il tramonto nella notte di Natale per decifrare possibili andamenti dell’annata prossima, racchiusi in proverbi meteorologici che formano la struttura portante del calendario agrario: Natale lucente e Pasca scurente, se uei cu begna bona la semente, Natale luminoso e Pasqua buia, se vuoi che venga bene la semina (il futuro raccolto); Natale allu limmatare, Pasca allu cantune, se oi lu cistune, Natale sulla soglia, Pasqua al riparo, se vuoi pieno il cesto; Natale cu llu sule e Pasca cu llu tizzune, se oi begna na bbona stagiune, Natale col sole e Pasqua col tizzone, se vuoi che venga una buona stagione; Natale siccu massaru riccu, Natale secco massaio ricco, ed altri dello stesso contenuto.

Nella società contadina il Natale rappresentava la data di passaggio tra un’annata agricola e l’altra, il periodo di tregua tra le operazioni dell’autunno e quelle dell’inverno e della successiva primavera, originando una proficua serie di proverbi meteorologici come: fenca a Natale, nu friddu e nu fame, de Natale a nnanti tramanu li capasuni (o li cistizzi o ci cistuni) ca stannu acanti, prima di Natale né freddo né fame, da Natale in poi tremano i recipienti di terracotta (o i diversi panieri di giunco) che sono vuoti (perché il freddo non permetteva al contadino di andare a lavorare in campagna per guadagnare qualcosa), oppure…dopu Natale friddu e fame, tremanu li ‘nfanti  o anche  tremanu le corna de li oi, dopo Natale freddo e fame, tremano i bambini e, addirittura, le corna dei buoi. Effettivamente, dopo Natale, la temperatura precipita notevolmente e si verificano, più che nevicate, le temibili gelate che distruggono le piante.

Infine si ricorda che in passato la festa del Natale sollevava l’animo di tutti coloro per i quali la stessa ene na fiata all’annu, viene una volta l’anno, ossia era un evento straordinario e lo festeggiavano abbellendo il proprio aspetto: de Capudanno e de Bifanìa se mmuta la signurìa, de Pasca e de Natale se mmutanu le furnare, a Capodanno e alla Befana si cambiano (si vestono a nuovo) i signori, a Pasqua e a Natale si cambiano le fornaie; de Pasca e de Natale se mmutanu le furnare, a Pasca de li fiuri se mmutanu li signuri  o li ellani o li ferrari, a Pasqua e a Natale si cambiano le fornaie, a Pasqua fiorita si cambiano i signori o i villani o i fabbri.

Tratto da R. Barletta, Il presepe popolare salentino. Credenze riti e tradizioni, Lecce 2007

 

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