In gran parte dei centri salentini, il giorno di vigilia, il 7 dicembre, per tradizione si mangia la puccia, un piccolo pane molto soffice. Un tempo nella vigilia dell’Immacolata veniva anche osservato una sorta di digiuno.
La cucina rimaneva rigorosamente spenta fino a mezzogiorno, quando sulla tavola di magro facevano bella mostra solo le pucce e le pittule.
La puccia, preparata con lo stesso impasto del pane, ma più diluito con acqua, cotta al forno soltanto per qualche minuto, tant’è che si definisce puccia alla vampa, puccia (cotta) appena alla fiamma.
La semplicità degli ingredienti e l’abbondante fior di farina con cui si spolvera la puccia, infatti, ben si addicono al rito del digiuno e al simbolo di purezza dell’Immacolata.
Questo pane devozionale si gusta imbottendolo con ingredienti rigorosamente di magro: tonno e capperi o pesciolini sott’aceto, formaggio ‘svizzero’.
In questo giorno era rispettata (in alcuni casi lo è ancora) una simpatica consuetudine: i datori di lavoro offrivano le tradizionali pucce ai dipendenti, che se le marendavano, le consumavano nella pausa della merenda.
Oltre alla puccia - come si diceva - si mangiano le pìttule, piccole frittelle, che cominciavano a prepararsi proprio il 7 dicembre. Lo ricorda il detto: te la Mmaculata, la prima pittulata, dell’Immacoltata (si preparano) le prime pìttule.
Dopo il “digiuno” le famiglie e la comunità erano pronte a venerare la Madonna con il pranzo della festa che aveva, come piatti principali, e per i fedeli alla tradizione ha ancora: lo stoccapesce al sugo con cui condire una pastina molto piccola, baccalà cu’ le patate cotto nella pignata e il grano cucinato nel sugo di pomodoro, insieme a cipolla e abbondante pipirussu.