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Due giornate spiritualmente intense ed emotivamente forti. Fortissime. Sono state quelle trascorse nell’ultimo fine settimana da due piccole comunità del sud che da trent’anni e più sono diventate davvero “sorelle” nello stesso anello del servizio alla Chiesa, l’anello di don Tonino Bello.

 

 

 

A dare sostanza ad una sorellanza già solida, una circostanza provvidenziale: la proclamazione della venerabilità del Servo di Dio Antonio Bello, vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo, Terlizzi e sacerdote straordinario del clero del Capo di Leuca. Con due solenni celebrazioni, una a Molfetta, la città dell’epilogo della sua vita santa, sabato sera, nella stessa cattedrale che per l’ultima volta ha abbracciato la “carne” e il “cuore” sofferenti di don Tonino. L’altra, domenica mattina, ad Alessano. La terra che lo ha visto nascere in una casa e in una comunità che sono state per lui l’abecedario della fede e della vocazione alla sua radicale sequela Christi.

Sull’altare del suo ritorno al Padre (a Molfetta) e nella chiesa (ad Alessano) dove, nell’antico fonte battesimale il piccolo Tonino ricevette il sacramento della salvezza, il card. Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, ha presieduto due eucarestie che rimarranno alla storia. Per la solennità del momento, per il cristiano orgoglio, per l’intima energia trasmessa con le due omelie.

“Torno qui a Molfetta - ha detto il cardinale aprendo la sua riflessione sabato sera - e celebro in questa cattedrale col cuore non soltanto colmo di emozioni, ma pure ricco di tanti ricordi. Mai avrei immaginato di salire su questa cattedra per presiedere un’eucaristia rivestito della dignità cardinalizia e, per giunta, per rendere pubblico il decreto di venerabilità per il Servo di Dio Antonio Bello: don Tonino, come sempre lo abbiamo chiamato”.

A Molfetta (GUARDA e LEGGI IL TESTO INTEGRALE), dove don Marcello ci ha lasciato il cuore: “Ho vissuto qui a Molfetta trentacinque anni della mia vita e tutto il mio ministero di presbitero lo deposi ai piedi della Regina Apuliae, quando, appresa in segreto dall’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi la mia nomina alla Chiesa di Oria, vi tornai da solo al mattino del 13 luglio 1998”.

L’omelia è proseguita prendendo spunto dal vangelo delle Nozze di Cana, riletto con le stesse originali intuizioni esegetiche di don Tonino in Maria, donna del vino nuovo: “«Se Maria presenziasse con Gesù, come in un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe più: ‘Figlio non hanno più vino’, ma direbbe: Figlio, non hanno più sale…» (Scritti, VI, 243). […] Per il nostro Servo di Dio ciò indicava l’importanza, la necessità di avere, di trovare in Cristo il senso della vita: «di questo orientamento decisivo, di questo intimo significato delle cose, di questo profondo “perché”, oggi sentiamo tutti un incredibile bisogno» (Scritti, VI, 243)”.

Il finale non è tutto d’un fiato. La commozione frantuma il cerimoniale e coglie nel segno indicando una continuità francescana lunga vent’anni (1993-2013). A vent’anni dall’ultima omelia di don Tonino nella messa crismale, l’ultimo conclave: “«Coraggio - disse (don Tonino ndr)! Vogliate bene a Gesù Cristo, amatelo con tutto il cuore, prendete il Vangelo tra le mani, cercate di tradurre in pratica quello che Gesù vi dice con semplicità di spirito». Sono parole che per il loro contenuto, il contesto e l’ora in cui furono dette, basterebbero da sole a testimoniare della santità di don Tonino. Nonostante i quasi trent’anni trascorsi, se facciamo silenzio e facciamo tacere ogni altra voce, queste parole possiamo sentirle risuonare fra queste mura”. Per una conclusione da emozioni spirituali: “E poiché «non può amare Dio che non vede, chi non ama il proprio fratello che vede» (1Gv 4,20) don Tonino subito aggiunse: «Poi, amate i poveri. Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà» (Scritti, VI, 351). Emergeva qui l’anima francescana di don Tonino; quella medesima, che aleggiò nel conclave di metà marzo 2013. «E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: ‘Non dimenticarti dei poveri!’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri» (Francesco, Udienza del 16 marzo 2013)”.

Ad Alessano (LEGGI IL TESTO INTEGRALE), nel giorno del suo onomastico, domenica mattina, il card. Semeraro ha aperto l’omelia “scomodando” ancora una volta le sue memorie più profonde e personali. L’ultimo incontro con don Tonino ad Alessano in compagnia di don donato Negro, all’epoca rettore del seminario regionale di Molfetta e dopo qualche mese primo successore del Venerabile sulla cattedra molfettese: “Lo incontrammo - ricorda - seduto nel suo piccolo letto, in vestaglia e intento a correggere le ultime bozze di Maria, donna dei nostri giorni. Sapevamo bene quanto fosse accurato nello scrivere ed egli, sorridendo, ce lo disse pure, preoccupato di consegnare in tempo il manoscritto all’editore, sicché l’opera fosse pronta per il successivo mese mariano di maggio. Ci disse fra l’altro che era sua intenzione tornare presto a Molfetta. «Un vescovo - disse - deve morire tra i suoi figli, dove il Signore lo ha collocato». Morì dopo due mesi; «come i Patriarchi e gli antichi Padri», disse l’arcivescovo Mariano Magrassi - anch’egli di venerata memoria - nell’omelia durante la liturgia esequiale celebrata sul porto di Molfetta in un luminoso pomeriggio primaverile”.

Nella chiesa madre (e non solo per il titolo) di don Tonino, il card. Semeraro, dopo aver indagato nelle radici del Servo di Dio, ha preferito presentarne il dono della profezia: “«La Chiesa deve fare questo. Raggiungere la città oggi significa raggiungere le periferie, dove la gente soffre, muore, si dispera, raggiungere anche le strutture e le istituzioni pubbliche. Questa è la diaconia, il servizio più forte che dobbiamo dare alla città, al mondo che se n’è andato per i fatti suoi, forse perché si è troppo annoiato dei nostri lamenti, perché ci ha visti troppo tristi, perché ci ha visti sempre imprecare contro tutto ciò che è vita, gioia, giovinezza, stupore» (Scritti, III, 50-51). Questo è profezia: anticipazione. Lo stesso don Tonino è stato questa anticipazione. «Al vescovo tocca il compito del profeta», disse una volta (cf. Scritti, VI, 327) e questo egli non lo ha sentito solo come responsabilità, ma lo ha vissuto come compito: con la parola, con le scelte, da ultimo con l’accoglienza del dolore e della morte. Per questo, Papa Francesco, venendo qui il 20 aprile 2018, lo chiamò «profeta di speranza». «In ogni epoca - disse - il Signore mette sul cammino della Chiesa dei testimoni che incarnano il buon annuncio di Pasqua, profeti di speranza per l’avvenire di tutti. Dalla vostra terra Dio ne ha fatto sorgere uno, come dono e profezia per i nostri tempi. E Dio desidera che il suo dono sia accolto, che la sua profezia sia attuata»”.

“Siate - è la consegna finale del cardinale prefetto - non soltanto i custodi della sua tomba, ma ancora di più gli eredi delle sue speranze e i testimoni della sua profezia. Per questo ci sono i santi; per questo la Chiesa porta sugli altari alcuni suoi figli e figlie. […] Qui, in finibus terrae, don Tonino vi sia ricordato anche dal bianco faro, che a Leuca, guardando l’Oriente, s’innalza accanto all’amato santuario di Santa Maria, «donna del vino nuovo» (cf. Scritti, III, 30ss)”.

 

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