Pubblichiamo integralmente l’intervista rilasciata dal vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Vito Angiuli al collega Cenzio Di Zanni per le pagine di ‘Repubblica Bari’ e pubblicata ieri.
Il vescovo Angiuli riprende alcuni tratti della vita di don Tonino Bello e parla anche dei miracoli necessari per la sua beatificazione e la sua canonizzazione: “il patrimonio di esempi, di scritti e di gesti è già un “miracolo’”, rivela. Ma ecco il testo integrale dell’intervista.
La capacità di «stare nelle vene della storia», come avrebbe detto lui. La profezia sull’Europa, i giovani come punti cardinali. E quell’inconfutabile coerenza fra parole e gesti.
Sono i primi segni dietro la fama di santità di don Tonino Bello letti da Vito Angiuli, 69 anni, vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, la Chiesa nella quale il sacerdote di Alessano proclamato venerabile ha mosso i primi passi verso la canonizzazione. Angiuli sa di cosa parla, lui che durante l’episcopato di mons. Bello a Molfetta è stato educatore al Pontificio seminario regionale. E che ora mette in guardia: «Don Tonino non è uno slogan». La ragione è una: «Ci sono diversi aspetti della sua personalità che dovrebbero essere messi tutti in evidenza, a partire dalla capacità di lettura dei segni dei tempi».
Cominciamo da qui.
«È evidente la sua capacità di stare nella storia, di capire l’evoluzione sociale. Lui diceva che bisogna avere occhi nuovi per poter stare nella Storia. Per stare, secondo la sua parola, nelle vene della Storia. Del resto le sue prese di posizione sull’ambiente, la pace, le armi...».
La marcia di Sarajevo.
«Tutto rientra nella sua capacità di stare dentro la realtà del tempo e in un certo senso anche, va detto, di anticipare i tempi. Questa è la profezia. Il cardinale Marcello Semeraro, nella sua ultima omelia a Molfetta, ha detto che il profeta non è colui che prevede il futuro, ma colui che lo anticipa. Che sa guardare oltre».
In cosa è stato profetico Bello?
«Per esempio, in un suo scritto degli anni Novanta, quando si stava costituendo l’Europa, lui ammoniva che l’Europa dovesse essere veramente una casa comune e non una cassa comune. Non doveva essere soltanto un insieme di Paesi mossi da ragioni di tipo economico: questo fa vedere la sua capacità di leggere la storia e, in un certo senso, anche di anticiparla».
Che cos’altro mette nell’elenco dei profili della sua santità?
«Quello dell’educatore. Don Tonino, lo sottolineo sempre, è stato nel seminario minore per circa 18 anni e comunque gran parte della sua vita, anche da vescovo, è stata rivolta ai giovani con discorsi, interventi, prese di posizione per aiutare le nuove generazioni a vivere con coraggio, con audacia. Sono le parole che ho ascoltato spesso a Molfetta. Ricordo che lui, soprattutto nei tempi forti dell’anno liturgico, l’Avvento e la Quaresima, incontrava i giovani. La cattedrale era straripante di giovani».
Che l’hanno amato tantissimo.
«Appunto. Quando lui era ormai alla fine della sua vita molti giovani andarono sotto la sua finestra a trattenersi e a cantare. C’è una bellissima scena di lui che li saluta dalla finestra. E mi vengono in mente altre figure».
Quali?
«Penso a San Giovanni Bosco o San Filippo Neri, ai santi educatori insomma. Il terzo motivo della sua santità, invece, sta nella capacità di unire le parole ai gesti. Lui non parlava soltanto, faceva gesti di carità concreta. C’è tutta una serie di gesti che contano, come l’istituzione della “Casa” a Ruvo di Puglia, una struttura per i tossicodipendenti che lui volle fortemente».
Omelie che si fanno azioni.
«È l’insegnamento che ha dato il Concilio Vaticano II quando ha detto che la rivelazione, cioè il modo in cui Cristo si è mostrato nel tempo, è stata attraverso parole e azioni. Don Tonino ha ricalcato questo modello evangelico. La forza delle sue parole nasce dai gesti e, viceversa, i gesti illuminano il senso delle sue parole. È questo ciò che attirava».
Ora perché sia proclamato beato e poi santo le regole prevedono l’accertamento di due miracoli, per molti però “il miracolo” è già don Tonino.
«Indubbiamente il patrimonio di esempi, di scritti e di gesti è già un “miracolo”. Quello che io considero come miracolo è il linguaggio che don Tonino ci ha lasciato, le parole nuove con le quali ha interpretato il Vangelo».
Lei ha scritto che è stato a suo modo rivoluzionario ma senza discostarsi dalla tradizione. Può fare qualche esempio?
«Penso all’immagine notissima del grembiule: è un’immagine che sta nel Vangelo di Giovanni, ma don Tonino l’ha presa come un elemento simbolico per dire che la Chiesa deve vivere questa sua vicinanza all’uomo mettendosi al suo servizio. Aveva la capacità di utilizzare immagini prese sia dalla Scrittura sia dal linguaggio corrente per parlare all’uomo contemporaneo».
Torniamo al suo monito: don Tonino non è uno slogan.
«Certo, per evitare di ridurlo a questo bisogna conoscerlo, don Tonino. Ora ci si informa per frasi prese dai social, ma non aiuta la comprensione. A quasi 30 anni dalla morte la maggior parte delle opere di don Tonino sono edite, allora per capirlo non fermiamoci agli slogan. Riscopriamolo integralmente».
C’è un lato ancora oscuro?
«La sua vita ugentina, quella di quando era sacerdote. Lì c’è la parte più intima di don Tonino. Ci sono diari in cui si mostra tutta la sua umanità: non il personaggio pubblico, quello mediatico dei grandi gesti, ma quello della vita ordinaria che lo fa apparire uomo. Leggere i suoi diari è molto utile per riscoprire l’uomo dietro il santo o il santo che diventa uomo. Il seme di quella santità era già qui».
(da Repubblica Bari del 23 gennaio 2023 – intervista di Cenzio Di Zanni)