La ricorrenza di San Giuseppe, patrono dei falegnami e degli artigiani, solitamente interrompe il digiuno e l’astinenza quaresimali ed è la prima festa dell’imminente primavera.
Nei confronti del santo, diffusamente venerato nell’intero Salento, la profonda devozione si rinnova con una manifestazione rimasta immutata nel tempo, particolarmente a Giurdignano, Uggiano La Chiesa, Giuggianello, Casammassella, Minervino e in altri centri dell’area otrantina. In alcuni di questi, chi ha ricevuto una grazia o chi la chiede, prepara la taulata de San Giseppe, tavolata di San Giuseppe, detta anche massa, distinta tra “cotta” e “cruda”. Quella cruda è costituita da bottiglie di vino e di olio, confezioni di pasta alimentare, pomodori pelati, zucchero e altro, regolarmente benedetti, che si distribuiscono a ciascun componente (nove o tredici) durante il pranzo rituale del 19 marzo. La taulata cotta, invece, è costituita da una serie di piatti ‘devozionali’ che gli stessi commensali consumano durante il pranzo a cui, un tempo, partecipavano persone bisognose.
I piatti sono rigorosamente di magro e racchiudono un simbolismo legato all’attività artigianale e al patronato di San Giuseppe come i vermicelli conditi con miele, pane grattugiato un po’ abbrustolito e cannella in polvere; la cìceri e tria, pietanza di ceci cotti nella pignatta uniti a trenette di pasta fresca (fatte a casa, senza uova) a cui se ne aggiunge una manciata precedentemente fritte (in alcuni centri talvolta si aggiungono mùgnuli, cavoli locali, lessati a parte); la spicanarda, pastina condita col sugo di stoccafisso; il cavolfiore fritto con la pastella; i pampasciuli, cipollette selvagge, lesse e macerate nell’olio e aceto; ope (boghe) arrostite o stoccafisso in umido; le carteddhrate e i purceddhruzzi. Le boghe, molto comuni nel Salento e abbondanti nel mese di marzo, non possono mancare tanto che la loro presenza sulla taulata è confermata dal proverbio: San Giseppe senza ope nu po’ stare, San Giuseppe senza boghe non può stare.
Come si è già detto, le pietanze hanno un significato simbolico: la cìceri e tria ricorderebbe gli elementi cromatici dell’iconografia di San Giuseppe; il cavolfiore rimanderebbe alla verga fiorita, il pesce alluderebbe a Cristo e le carteddhrate alle fasce di Gesù Bambino.
Accanto all’immagine di San Giuseppe che campeggia su una sorta di altare domestico, si dispongono enormi pani (di almeno 5-6 chili), a forma di tarallo, ognuno dei quali reca un contrassegno (verga, bastone, corona, tre palline, etc.), sempre di pasta di pane, con al centro un’arancia o un finocchio; ciascun pane viene suddiviso durante la Settimana santa e distribuita fra parenti e conoscenti.
San Giuseppe è conosciuto come il “santo delle frittelle”, siano esse salate o dolci, semplici o farcite. Nel giorno della sua festa è di prammatica consumare o regalare la zèppula, una gustosa ciambella di pasta dolce, ricoperta di crema gialla sulla quale si poggia un bottone di cioccolato che, nell’immaginario collettivo rappresenterebbe i riccioli ottenuti quando San Giuseppe, in quanto falegname, piallava il legno. In proposito vi è un modo di dire che si indirizzava a una donna dai seni appena appena pronunciati: sia ca nd’àne passatu la chianòzzula te San Giseppe, come se le avessero passato la pialla di San Giuseppe.
Qualche giorno prima della festa, in alcuni centri sono preparate le “pucce di San Giuseppe”, pagnottine di pasta lievitata, con olive o senza, che si distribuiscono a parenti, amici e vicini di casa; chi ne riceve una, ringrazia pronunciando la frase beneaugurante: San Giseppe te l’àggia ‘nsettu, San Giuseppe ti renda grazie.
Un modo di dire recita: te San Giseppe vae lu cràulu e vene lu serpe, a San Giuseppe va via il corvo e viene il serpente, alludendo al clima che comincia ad essere tiepido e fa svegliare i rettili.
Il 19 marzo si comincia a seminare il basilico in semenzaio.