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San Giuseppe viene lodato nelle litanie in suo onore come Amator paupertatis, amante della povertà. Ovviamente, è lecito immaginare che il suo stile di vita fosse sobrio e frugale.

 

Tuttavia, sarebbe un grave errore pensare a lui come un uomo ridotto in miseria. Gli scritti neotestamentari lo definiscono “tékton”. Vocabolo greco che, di solito, viene reso con “falegname” o, in maniera certo più precisa, “carpentiere”. Il tékton era un artigiano specializzato nella lavorazione di diversi materiali duri. Dunque, non solo il legno ma pure il corno, l’avorio o la pietra. Anche Gesù era un tékton e determinate parabole (ad esempio, quella della casa sulla roccia) sembrano rimandare, in modo nitido, al lavoro che egli ed il suo padre putativo avevano esercitato. Non mancano poi studiosi che hanno visto in Giuseppe una sorta di piccolo imprenditore del suo tempo. Alcuni ipotizzano che il nostro santo abbia lavorato a Sefforis, un grosso centro a mezz’ora di cammino da Nazareth dove, proprio nei primi anni di vita di Gesù, era aperto un vasto cantiere capace di attirare manovalanza da tutta la zona.        

Ad ogni modo, parlando del falegname galileo, una cosa è da tenere ben presente. Giuseppe, come Maria, aveva una dignità regale. Egli apparteneva al casato davidico, i suoi lontani antenati avevano cinto la corona e si erano assisi sul trono di Gerusalemme. Nelle sue vene scorreva il sangue di Salomone, che aveva reso grande la nazione d’Israele. Certo, dopo tanti secoli, lo splendore era svanito. Giuseppe doveva lavorare per sostenere la propria famiglia, tuttavia anche Davide era stato solo un semplice pastorello, prima di essere unto re. A scanso di equivoci, è bene ricordare altresì che Erode il Grande, che di fatto regnava sul popolo ebraico al tempo della nascita di Cristo, portava lo scettro solo perché i romani glielo avevano concesso. Erode, per giunta, dal punto di vista etnico, non era neppure ebreo perché figlio di una principessa nabatea e di padre edomita. Il suo essere meticcio lo rendeva del tutto estraneo al popolo eletto. Ciò spiega il motivo per cui fosse così tanto odiato dai suoi sudditi, oltreché temuto. Ciò fa comprendere ancor meglio perché i giudei, in alcuni passi evangelici, vorrebbero Gesù come sovrano. Richiesta originata senza dubbio dal facile entusiasmo conseguente ai miracoli ma che, almeno a rigor di termini, risultava legittima.

L’ascendenza davidica di Giuseppe venne sempre tenuta in gran conto dai padri della Chiesa. Del resto, la Tradizione gli attribuisce il titolo di Proles David inclita, inclita prole di Davide. In tale ottica, è fondamentale la genealogia con cui si inaugura il Vangelo di Matteo che, più che un atto notarile o un documento anagrafico, è da intendere come uno schema volto ad esaltare le origini del clan cui Gesù e Giuseppe appartenevano. Non per nulla, quella genealogia è organizzata in tre blocchi di 14 generazioni ciascuno. Le consonanti ebraiche del nome Davide, d-w-d, offrono infatti come somma del loro valore numerico proprio 14. La stella argentea che a Betlemme segna il luogo in cui il neonato Gesù venne deposto ha 14 punte proprio per celebrare le origini regali del Salvatore. Considerando tutti questi elementi, è allora più che giustificata l’iconografia che, a partire dal ʼ500, nei paesi di cultura ispanica, raffigurerà Giuseppe incoronato o seduto in trono come un autentico monarca.                        

 

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