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È stato presentato recentemente il 54° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Al termine di un anno eccezionale, la fotografia che ne emerge è, a dir poco, altrettanto eccezionale.

 

 

Il noto Istituto, fondato da Giuseppe De Rita, ricorre ad un’immagine emblematica: “il sistema-Italia è come una ruota quadrata che non gira”.

A pagare il conto economico della pandemia saranno i giovani e le donne: si stima che i posti di lavoro persi saranno almeno 500 mila.

La pandemia ha squarciato il velo: dietro la paura e la vulnerabilità, sono emersi i nostri difetti strutturali e le debolezze del sistema, che ci portavamo avanti da decenni.

L’’emergenza e il lockdown hanno danneggiato maggiormente le persone più vulnerabili ed ampliato le disuguaglianze sociali, ma è anche emerso che, a fronte dei quasi tre miliardi di euro investiti per la riorganizzazione della sanità pubblica, continuano ad aumentare i ricoverati ed i decessi per Covid.

È evidente che qualcosa non funziona!

Un grande divario emerge anche nel settore scolastico, dove i più deboli, disabili e studenti non italiani, soffrono più degli appartenenti alle classi sociali medio-alte.

Oltre un milione di studenti italiani soffre per la mancanza di socialità, che si instaura nelle aule scolastiche e che finisce per ampliare il fenomeno della dispersione scolastica (13,5 %).

Ed a questo proposito emerge, come ha rilevato F. De Bortoli su Corsera del 6 Dicembre, che “se la scuola fosse un’attività economica, avesse un suo fatturato, l’avremmo trattata certamente meglio… Quanto vale un giorno di lezione? Nulla.”

Questo conferma che per gli Italiani la scuola e la formazione in generale, non solo non è fondamentale per l’avvenire delle future generazioni, ma è, al massimo, un ramo complementare e quindi minore della vita sociale.

Nessuno sembra avere piena consapevolezza del fatto che il nostro benessere futuro e la consapevolezza della cittadinanza dipendono dai livelli dell’istruzione e della formazione.

I giovani non sono presi in considerazione e non si riflette mai, abbastanza sulla “Next Generation”, preoccupati come siamo solo del presente.

La riprova la troviamo nei nostri investimenti per l’educazione: il 3,9 % del Pil e, per l’Università addirittura lo 0,9 %, mentre la media Ocse è dell’1,4 %.

E non parliamo poi della c.d. “formazione continua” per la quale l’Italia occupa uno degli ultimi posti tra i Paesi Ocse.

E nemmeno il sistema produttivo sostiene, con adeguati investimenti, questo settore: in media un lavoratore su cinque ha accesso a percorsi di formazione.

Siamo ben lontani, ad esempio, dalla Francia che, con un investimento di 35 miliardi di euro per ogni anno, ha creato dei “conti personali di formazione”.

Sembra dunque abbastanza probabile che, dopo il termine dell’emergenza sanitaria e centinaia di miliardi dispersi in vari rivoli inconcludenti, torneremo a fare i conti con gli atavici problemi.

E, ancora una volta, non avremo imparato nulla dall’esperienza, cioè dai molti, evitabili, errori commessi.

 

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