Domani a Lungro in provincia di Cosenza, nella cattedrale di San Nicola di Mira, avranno inizio le celebrazioni per il primo centenario dell’Eparchia. Anche a Lecce, la parrocchia San Nicola di Myra, la più nota “chiesa greca”, è sotto la giurisdizione dell’Eparchia di Lungro. Si tratta di una comunità cattolica, quindi in comunione con il Papa, ma di rito greco.
Anche l’arcivescovo Michele Seccia insieme con il parroco della comunità leccese papas Nik Pace accompagnati da mons. Carlo Santoro e a Massimo Vergari, rispettivamente direttore e membro dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, saranno a Lungro per partecipare all’apertura del primo centenario.
Per l’occasione il vescovo, mons. Donato Oliverio, presiederà la Divina liturgia. Alla vigilia della ricorrenza, lo abbiamo intervistato.
L’Eparchia di Lungro celebra i suoi primi 100 anni. Presentiamo questa realtà di Chiesa in Italia.
Era il 13 febbraio 1919 quando il venerato Papa Benedetto XV istituiva l’Eparchia di Lungro degli italo-albanesi dell’Italia Continentale, immediatamente soggetta alla Santa Sede. Un evento storico, di grande portata, per gli albanesi di Calabria, con ripercussioni antropologiche e sociali e, naturalmente, ecclesiali. Il primo centenario vuole essere innanzitutto un inno di lode e ringraziamento a Dio per il dono che ci ha voluto elargire un secolo fa. Questa ricorrenza è anche un’occasione preziosa per conoscere meglio la realtà e il significato di questa Chiesa viva, che siamo noi, proiettati nel futuro. Dobbiamo dire ed essere grati alla Santa Sede, che, con questa porzione di Chiesa è sempre stata lungimirante. Ci ha aiutati, protetti, difesi, oltre che materialmente, anche spiritualmente.
Anche se l’Eparchia è sorta nel 1919, gli arbereshe in Calabria sono presenti da più tempo…
La presenza degli arbereshe in Calabria risale al XV secolo, quando i profughi albanesi greci approdarono in Italia. Tale presenza segna anche lentamente la rivitalizzazione della presenza bizantina in Italia. Precisamente queste comunità iniziano a vivere nei territori italiani dopo il Concilio di Firenze del 1439 che dichiarò l’unione tra la Chiesa romana e la Chiesa greca. Iniziarono le migrazioni dei nostri Padri, a causa dello scoppio della guerra contro i turchi invasori, contrastati dall’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, poi insignito del titolo di “Atleta di Cristo”. Le migrazioni sono continuate dopo la caduta di Costantinopoli e la morte dello stesso Scanderbeg. In quel tempo si spostò una nazione intera, una Chiesa, il cristianesimo albanese, la lingua greca, la lingua albanese, un popolo intero con il suo patrimonio, per poter rimanere in vita liberi e cristiani.
L’Eparchia può essere voce per l’ecumenismo e ponte fra Oriente e Occidente?
La Chiesa in Italia e, in modo particolare, in Calabria è bella perché respira a due polmoni. In questi cento anni l’Eparchia di Lungro ha contribuito a salvaguardare il principio della legittima diversità nell’unità della fede e ha mantenuto viva l’esigenza del rispetto della legittima diversità. Possiamo dire che la nostra Eparchia rende visibile in Italia il tesoro dell’Oriente cristiano, saldamente piantata in Occidente, con il patrimonio liturgico, cerimoniale, iconografico, teologico, culturale.
La Chiesa italo-albanese è coinvolta nella grande questione della ricomposizione dell’unità dei cristiani.
San Paolo VI definì i fedeli italo-albanesi quasi precursori del moderno ecumenismo. Siamo chiamati dunque, come Eparchia, a pensare in termini ecumenici, a vivere per l’ecumenismo, a far fruttificare il nostro essere cattolici di rito bizantino in chiave ecumenica, secondo la stessa richiesta di Giovanni Paolo II, che nell’udienza speciale ai membri del II Sinodo intereparchiale di Grottaferrata, così diceva: “Vi incoraggio a proseguire i contatti, grazie alla comune tradizione liturgica con le Chiese ortodosse, desiderose anch’esse di rendere gloria a Dio”.
Integrarsi rimanendo fedeli alla tradizione. Integrarsi senza omologarsi. Che esempio è l’Eparchia per il mondo globalizzato?
Integrazione non comporta necessariamente omologazione. Il nostro popolo è una realtà assolutamente singolare, così come la stessa Eparchia, sia per le Chiese d’Oriente sia per quelle d’Occidente. Fedele alla propria tradizione di fede, il popolo arbereshe è testimone vivo della tradizione orientale ed è oggi, nel tempo del cammino ecumenico, costruttore di ponti. Per il mondo globalizzato, siamo modello di conservazione dell’identità di un popolo, nel mantenimento dei caratteri identitari, etnici, linguistici, religiosi, delle comunità arbereshe. Il rito bizantino si rivela come elemento costitutivo del nostro popolo, ed è sentito come il più alto e prezioso patrimonio di tutta la stirpe albanese. Dunque, tradizione e innovazione, un giusto equilibrio nella trasmissione dei valori della nostra cultura.
I vescovi che l’hanno preceduta hanno favorito il cammino della Chiesa di Lungro in Italia. Quale missione sente di dover realizzare? Quale il futuro dell’Eparchia?
I miei predecessori, da mons. Giovanni Mele a mons. Giovanni Stamati, a mons. Ercole Lupinacci, sono stati dei vescovi illuminati e di alta levatura spirituale e morale, particolarmente innamorati della loro missione. Nel presente storico, sento di cercare di realizzare una grande missione. Voglio guidare l’Eparchia con i miei fedeli italo-albanesi in piena comunione con la Sede di Pietro a spenderci per l’unità dei cristiani; per esprimere profeticamente il futuro prossimo della Chiesa, l’unità nella retta fede e nell’abbondante ricchezza delle differenze ecclesiali.Oggi le nostre comunità potrebbero essere valorizzate come palestre per sperimentare dal vivo situazioni di unità già vissute, l’immagine della futura piena comunione e unione della Chiesa cattolica e quella ortodossa.