Come da tradizione, ieri 2 novembre, in occasione dell’annuale Commemorazione dei fedeli defunti, l’arcivescovo Michele Seccia si è recato presso il cimitero di Lecce dove, sul piazzale antistante la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo, ha presieduto l’Eucaristia.
Hanno concelebrato con lui l’arcivescovo coadiutore Angelo Raffaele Panzetta, il rettore don Antonio Orlando e una rappresentanza dei sacerdoti che svolgono il loro ministero nelle parrocchie della città.
A rappresentare la comunità cittadina c’era, invece, il sindaco di Lecce Adriana Poli Bortone e alcuni membri dell’amministrazione comunale.
Prendendo spunto dai testi biblici della liturgia del giorno, Seccia ha subito voluto spiegare il senso della commemorazione: non un semplice ricordare nostalgico ma il desiderio di continuare a leggere la morte attraverso la fede intendendola come una continuazione della vita del credente.
Così Seccia: “Fratelli e sorelle, oggi, non è il giorno della mestizia e del dispiacere che sono sentimenti umani a motivo della presa di coscienza di una assenza che pesa a livello umano. Oggi è il giorno della professione della nostra fede: noi crediamo in Cristo crocifisso, morto e risorto, dunque vivente. E credendo in Lui siamo certi che quanti per il Battesimo sono stati inseriti in questo mistero vitale, continuano a stare e a vivere in Lui”.
Non basta, tuttavia, proclamarsi cristiani a parole: l’arcivescovo facendo scaturire la sua riflessione dal brano evangelico tratto dal capitolo 25 di San Matteo ha dato un nome a ciò che consente al credente di essere operoso, di riscoprirsi incarnatore della Parola: l’amore.
Ogni volta, infatti, che il discepolo del Signore ama e serve l’uomo sofferente, non fa altro che amare e servire Cristo e in tal modo l’amore diventa diffusivo di sé.
Ancora l’arcivescovo: “È il Signore ad indicarci la strada per la quale possiamo arrivare a Lui ed è l’amore. Miei cari, amare non è un fatto solo emozionale ma ci chiede di andare oltre noi stessi, ci chiede di evitare atteggiamenti spesso assurdi che si verificano quando per questioni futili finiamo per troncare rapporti umani, per turbare amicizie, per interrompere legami familiari. Il Signore domanda a noi di osare, ci chiede di familiarizzare con Lui per riconoscerlo nelle fattezze di chi è povero e sofferente, rifiutato e disprezzato, in preda al buio e allo sconforto. Fare questo consente al credente di continuare a fare incarnare il Signore nella storia”.
La distanza tra chi è ancora in vita e i fratelli e sorelle defunti non è interrotta: la preghiera diventa il deterrente in grado di accrescere la comunione, di continuare una relazione che deve sintonizzarsi su nuovi linguaggi, di rafforzare la speranza nella vita eterna.
Spesso, infatti, la sola visita al cimitero, più e più volte al giorno non fa altro che acuire il dolore che, invece, ha bisogno d’essere incanalato in Dio.
Ancora un provocatorio Seccia: “Cosa facciamo quando veniamo al cimitero? Vediamo, ahimè, una lapide dietro la quale c’è il corpo senza vita dei nostri cari. Il loro spirito, però, è in Dio. Ed è questo appuntamento che noi stiamo vivendo ora che accresce la comunione tra noi e i nostri fratelli e sorelle che sono nella pace. Figli miei, riscopriamo il valore della celebrazione eucaristica! Nutriamoci di essa con fede perché, come ebbe a dire una grande donna mistica [Chiara Lubich ndr] è quando ci si ciba del corpo di Cristo che si riceve nel cuore il germe della immortalità e dunque della vita”.
Silenzio, riflessione, ricordo e preghiera si sono incontrate in questo pomeriggio in cui lo sguardo fisso sul Crocifisso Risorto ha costituito una iniezione di speranza per tutta la Chiesa che ha ricordato i defunti con la sicura speranza che essi sono in Dio nel quale ogni essere vive.
Racconto per immagini di Arturo Caprioli