“Dal punto di vista diplomatico, ogni tassello, seppur piccolo, che si può aggiungere a questo difficile puzzle della pace, è sicuramente un progresso”.
L’ambasciatore Pasquale Ferrara, attuale direttore generale degli Affari politici e di sicurezza del Ministero degli esteri e della cooperazione internazionale, sta seguendo con grande interesse la “missione” del card. Matteo Zuppi appena tornato da Washington dove ha incontrato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Dopo Kiev dove ha incontrato il presidente Zelensky e Mosca, dove ha visto il patriarca Kirill, e Maria Lvova-Belova, responsabile tra l’altro del trattamento dei bambini ucraini in Russia, quella a Washington con il presidente Biden è per Zuppi la terza tappa della missione di pace per l’Ucraina che gli è stata affidata da Papa Francesco.
Ambasciatore, che valore dare a questa missione dal punto di vista diplomatico?
Mi sembra che lo scopo generale della missione del card. Zuppi sia stato ben delineato dal nunzio apostolico a Washington che ha parlato di una missione volta ad ascoltare e essere ascoltati. È una iniziativa che si inserisce in altri tentativi diplomatici in corso, dalla formula per la pace del presidente Zelensky ai 12 punti cinesi fino alle proposte brasiliane, e quelle presentate da Indonesia e anche da un gruppo di Paesi africani. Purtroppo, però, non esiste ancora un vero e proprio piano di pace, ma solo dei principi in buona parte condivisibili che dovranno essere declinati in modo più concreto per un futuro quadro negoziale. C’è da dire anche che l’approccio della Santa Sede non è finalizzato ad avviare una mediazione in senso tecnico ma è un impegno di facilitazione basato sul diritto umanitario che - come sappiamo - riguarda anche in particolare la questione del ritorno e del ricongiungimento alle rispettive famiglie di minori ucraini deportati in Russia.
Quale può essere il “punto di forza” di questa azione portata avanti dalla Santa Sede?
La Santa Sede non è soltanto un attore internazionale. Ha una capacità che altre entità non hanno e cioè quello di mobilitare tutto un settore non governativo della società civile e delle organizzazioni religiose che possono dare un apporto molto importante soprattutto nel campo dei diritti e del rispetto delle regole umanitarie anche nel corso di un conflitto.
Kiev, Mosca e ora Washington. Finora il card. Zuppi ha avuto incontri bilaterali. Come si passa ad una fase successiva? E cioè portare tutti i vari protagonisti attorno un unico tavolo negoziale?
Questi dialoghi sono solo in apparenza e formalmente bilaterali, ma in realtà si inseriscono proprio nel tentativo più articolato di cercare di tessere una tela multilaterale. Ogni guerra, prima o poi, deve finire. E tutte le guerre, secondo l’esperienza storica, si concludono solitamente con un esito diplomatico, spesso con una Conferenza internazionale in cui si affrontano tutte le questioni centrali. Un possibile modello per la fase post-conflittuale può essere la Conferenza di Helsinki del 1975 per la pace e la sicurezza in Europa. Ma ci sono questioni ardue e irrinunciabili da risolvere, a partire dalla gravissima violazione della integrità territoriale dell’Ucraina, della sua indipendenza e sovranità alla questione dei crimini di guerra. Si parla spesso del cessate il fuoco, ma ciò non può comportare il semplice congelamento dello stato attuale del conflitto, senza prevedere anche il ritiro totale e progressivo delle forze russe dal territorio ucraino. Sono tutte questioni che dovranno essere inserite necessariamente in un contesto multilaterale, per creare condizioni di una pace giusta, duratura e sostenibile. Non ci sono però ancora le condizioni perché questo avvenga. In questo contesto, gli sforzi della Santa Sede sono fondamentali e non sono affatto periferici rispetto alla questione centrale della pace.
La missione vaticana punta a sostenere iniziative in ambito umanitari. In particolare, in questo caso si sta lavorando allo scambio dei bimbi deportati in Russia. Perché coinvolgere anche Washington?
Non si tratta, penso, di coinvolgere gli Stati Uniti. In realtà la missione a Washington risponde al compito importantissimo di tenere informato delle iniziative in corso da parte della Santa Sede uno degli attori internazionali più importanti, gli Stati Uniti, che può avere un ruolo fondamentale anche in un assetto futuro di pace. La restituzione dei bambini è una vicenda che si sta svolgendo attraverso canali che sono certamente ufficiali, che coinvolgono in particolare il governo ucraino e il governo russo, ma anche attraverso l’azione di organizzazione non governative a carattere religioso sia cattoliche sia ortodosse. Credo che il card. Zuppi abbia voluto anche capire meglio la valutazione di Washington sulle prospettive in questo tragico conflitto, che si prolunga ormai da oltre 500 giorni con decine di migliaia di vittima su entrambi i fronti. È interesse primario della Santa Sede mantenere contatti costanti con un paese che ha e avrà un ruolo fondamentale anche dopo il termine delle ostilità.
La missione di Zuppi a Washington è avvenuta in un momento di altissima tensione tra il ritiro della Russia dall’accordo sul grano agli attacchi in Crimea. Alla luce di questa situazione, cosa rivela il piano di pace perseguito da Papa Francesco?
Papa Francesco desidera che la guerra finisca e finisca presto. Il suo obiettivo a breve termine è contribuire a creare le condizioni minime perché ciò avvenga. Ma non c’è pace senza giustizia e la giustizia è un tema fondamentale, visto che stiamo parlando della legittima difesa di un paese che è stato invaso. Questo è un punto importante. Chiaramente non credo che la Santa Sede si voglia limitare solamente alla questione dei bambini deportati. Se non ora, almeno in futuro la Santa Sede potrà svolgere – soprattutto nell’ambito delle istituzioni multilaterali a cominciare dalle Nazioni Unite a New York – un ruolo di sprone e sostegno alle iniziative di ricomposizione di questo conflitto che prima o poi dovranno essere discusse.