Cari amici, forse vi sembrerà strano, ma sono proprio io, don Tonino, che vi parlo. Non potete immaginare la gioia che provo nel vedervi riuniti questa mattina nella mia e vostra chiesa, dove tante volte abbiamo celebrato festosamente le lodi del Signore.
Oggi è un giorno speciale: facciamo memoria della mia ordinazione sacerdotale, conferitami per l’imposizione delle mani, da quel sant’uomo che era mons. Giuseppe Ruotolo: alla stessa ora, nello stesso luogo, nella stessa solennità liturgica dell’Immacolata Concezione. Per me e per voi, è un ricordo grato e riconoscente di quell’evento di grazia e, nello stesso tempo, è il gioioso ringraziamento al Signore perché, come tutti sapete, lo scorso 25 novembre, Papa Francesco ha firmato il decreto di venerabilità, riconoscendo l’eroicità delle virtù teologali e cardinali. La gioia che avete provato a questo annuncio deve oggi diventare solenne promessa che vi impegnerete a comprendere e a imitare la fede, forte e incrollabile, della Vergine Immacolata.
VENERABILE NON È UN TITOLO ONORIFICO, MA UN SENTIERO DA PERCORRERE
Intanto vi prego di non pensare che “venerabile” sia per me un titolo onorifico o che rappresenti una patente di sublime estraneità, una sorta di impenetrabile lontananza, un’incolmabile separazione, il confinamento in una zona che a voi, ancora pellegrini sulla terra, del tutto inaccessibile. Se lo intendeste in questo modo, il titolo assumerebbe quasi il senso di distanza e di lontananza, una sorta di divario, una specie di fossato invalicabile, in palese e stridente contraddizione con quanto ho cercato di vivere quando ero tra voi. “Venerabile”, invece, è un termine che contiene in sé una forza attrattiva, un desiderio di compagnia, un invito a gareggiare nella stima reciproca, a guardare nella stessa direzione, a percorrere lo stesso sentiero. Insomma, a seguire tutti insieme le orme che Cristo ci ha lasciato.
Per tutta la vita, cari amici, ho rincorso il sogno di diventare santo. Sì, fin da ragazzo, mi sono innamorato di Gesù e ho cercato di seguirlo. Ho capito subito che la strada più semplice e più facile per andare dietro di lui era quella di amare tutti, soprattutto gli ultimi, i più poveri. E ho riversato su di loro tutto il mio affetto umano, cristiano, sacerdotale ed episcopale. Ogni volta ho avuto la conferma: fissando lo sguardo sul volto del povero ho intravisto il volto di Cristo. Ora non lo contemplo più come in uno specchio (cfr. 1Cor 13,12), da straniero (cfr. Gb 19,27), ma faccia a faccia, come un amico di vecchia data, che non si è mai eclissato dalla mia vista e che ora posso guardare negli occhi, lasciandomi penetrare dal suo sguardo, pieno di santa tenerezza e di amore sconfinato.
Che dolcezza sublime è il suo amore! E come è bello vivere così. Ancora adesso mi sembra strano che l’aggettivo “bello” sia diventato il mio stesso cognome! Forse perché in tutta la vita mi sono lasciato affascinare dalla bellezza divino-umana di Cristo, fino ad imprimere nella mia stessa persona il suo inconfondibile splendore. È bellissimo, cari amici, rimanere per sempre sotto il suo sguardo nel quale «s’annega il pensier mio / e il naufragar m’è dolce in questo mare» (G. Leopardi).
Nello splendido giardino dove mi trovo, rivedo tanti amici, soprattutto la mia dolcissima madre Maria e il mio carissimo fratello Marcello. Aspetto anche voi. Non chiedetemi come ho fatto a salire fin qui. Lo sapete già. Basta solo un briciolo di fede, quanto un granellino di senape, per spostare le montagne (cfr. Lc 17,5-10) e spiccare il volo fino a queste vette, accessibili solo a chi crede.
MARIA, LA CREDENTE
Questa mattina, vi confermo, come ho fatto tante volte nelle mie omelie mariane, il segreto per arrivare dove sono io: modellare la vostra fede su quella esemplare di Maria. Sì, guardate a lei, la stella matutina. La sua è la fede di chi percorre un lungo pellegrinaggio, un cammino in salita tra dirupi scoscesi; una fede risplendente di luce, perché resa purissima dalle prove e affinata come oro nel crogiuolo, nella kenosi più oscura della croce e dell’umile abbassamento.
Quante volte vi ho ripetuto che «dopo la sepoltura di Gesù, a custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei», la donna del sabato santo; lei «l’estuario dolcissimo nel quale almeno per un giorno si è raccolta la fede di tutta la Chiesa, […], l’ultimo punto di contatto col cielo»; lei la risorta con Cristo risorto, l’anastàsa, parola che, a ben vedere, «ha la stessa radice del sostantivo anàstasis, il classico vocabolo che indica l’avvenimento centrale della nostra fede» . «Alzarsi significa allargare lo spessore della propria fede». Forte della sua esperienza, ella ci fa capire che «dobbiamo cercare sulle tavole della storia le carovaniere dei nostri pellegrinaggi. È su questi itinerari che crescerà la nostra fede». Per questo, «ho parlato di Maria, testimone di fede» soprattutto ai giovani, smarriti per la divaricazione sempre più crescente tra fede e religiosità.
IMITARE L’ESEMPIO DI MARIA
Per tutta la vita ho cercato di imitare la fede di Maria, la sua splendida transumanza. Fino alla fine ho camminato nel mistero come un pellegrino assetato d’amore. E quanto più il sentiero si inoltrava nel buio fitto della foresta, tanto più ho reso svelto il passo, talvolta brancolando come un cieco in cerca di un appoggio più sicuro. La verità della fede si mostra solo alla fine, quando l’oscurità e le tenebre coprono la faccia della terra (cfr. Mt 27,45). Ho compreso sulla mia pelle la verità delle parole del Siracide quando afferma: «Non si deve chiamare nessuno beato prima della fine, un uomo si conosce veramente alla fine» (cfr. Sir 11,28). Sì, cari mici, posso dirlo per esperienza diretta: solo alla fine, sulla cima del calvario, la fede “s’illumina d’immenso”.
Quante cose ho imparato stando alla scuola di Maria, la donna credente per eccellenza. Anzitutto ho appreso che «la nostra fede deve avere la sensibilità del nomadismo. Dobbiamo essere nomadi, gli uomini del cammina-cammina, persone che si mettono in viaggio. La fede non è qualcosa di stabilizzato per sempre». Inoltre ho scoperto che Dio è «garantito solo dalla nudità della nostra fede» e che l’imperativo urgente della fede è considerare Dio «padre di tutti gli uomini». Anche «per vivere con fede la nostra dolorosa vicenda dobbiamo ricordarci che la malattia non è il frutto dei nostri peccati personali» e che «tra le verità più splendide della fede cristiana, non ce n’è una che emerga come questa: il nostro Dio non soffre di gelosia». La fede, in fondo, non è altro se non annegare nell’oceano della comunione e dell’amore della Trinità.
UNA FEDE MARTIRIALE
Alla fine della mia vita, come l’apostolo Paolo, ho ripercorso per intero il mio cammino e ora confidenzialmente, in fraterna conversazione, posso svelarvi il segreto della mia fede: «Vi parlo perciò come testimone. Vi metto a parte della mia fede martiriale». Non sto qui a ripetervi la dottrina di un trattato teologico, ma la verità di cui sono testimone per aver vissuto sulla mia pelle la sofferenza fisica e spirituale (l’incomprensione, la critica astiosa, il giudizio malevolo) o per averla appresa dal dolore altrui. «Passando di casa in casa, mi son lasciato confortare dalla fede degli ammalati e degli anziani». In essi, ho riconosciuto che il solido fondamento della vita è il mistero pasquale di Cristo. Per questo «se la risurrezione di Gesù è la tua fede incrollabile, la pace deve essere la tua speranza imperitura».
Non temete. Radicati e fondati sulla roccia stabile della vostra fede in Cristo risorto, la vostra vita rimarrà salda e sicura. Non potrete sbagliare. La fede non inganna e non illude, ma conferma che «il calvario non è soltanto la fontana della carità. Non è solo l’acquedotto della speranza, ma è anche la sorgente della fede. Per quale motivo? Fede significa abbandono: Padre mio mi abbandono a te. Sul Golgota, Gesù ha compiuto l’atto supremo di fede nei confronti del Padre. Sul Golgota, risplende la fede di Maria che, quando Gesù emette l’ultimo sospiro, rimane l’unica a illuminare la terra per tutto il venerdì e il sabato santo. Bene, è il luogo della fede, il calvario. Ma anche per noi il nostro piccolo calvario, quello che si racchiude nel perimetro di quattro pareti, deve essere il luogo della fede, della fiducia, del nostro abbandono a Dio».
Uniti a Cristo, farete parte anche voi della schiera dei martiri, di coloro che sono «testimoni. Cioè persone che si vendono l’anima per annunciare con la vita che Gesù è il Signore, ed è l’unico. Gente disposta a legare la zattera della propria esistenza, invece che agli ormeggi rassicuranti del denaro e del potere, a una tavoletta fluttuante che ha lo spessore del Vangelo e la forma della croce». Vi esorto a vivere la vita teologale attraverso l’esercizio circolare tra fede, speranza, e carità. È la vita stessa di Dio che dimorerà in voi.
VIVERE E TESTIMONIARE LO SCANDALO DELLA FEDE
Il dono della fede è come un piccolo seme che fa germogliare molteplici frutti. Per questo dovete seminarla dovunque e testimoniare il suo messaggio «ove è necessario, nel suo fecondo significato di scandalo e di rottura». Preparatevi, pertanto, «a vivere in tempi molto duri, che però, forse, vi aiuteranno a purificare le ragioni della vostra fede».
In primo luogo, ribadisco che le «Chiese devono diventare povere […]: non è solo problema di carità, ma anche di fede e di speranza». «Il mondo dei poveri è la chiave per comprendere la fede cristiana. […] Tutto questo non solo non vi allontana dalla nostra fede, ma vi rimanda al mondo dei poveri come al nostro vero posto!».
In secondo luogo, vi ricordo che la fede è saldamente inserita nelle vene della storia. Per questo occorre portare avanti il «processo di inculturazione della fede». Lo stesso Signore Gesù ci ha insegnato «il paradigma essenziale di quel rapporto tra fede e cultura che oggi si ripropone a voi» offrendovi «così, lo schema di come oggi la fede deve porsi, con discrezione e rispetto, di fronte alle culture» .
Dovete poi considerare che «una medesima fede può condurre a impegni diversi» e che «non tutti i programmi [politici] sono indifferenti per la fede cristiana [e che nessun] progetto [politico] va imposto come assoluto in nome della fede». Se poi «sia opportuno ricercare l’unità anche nelle scelte politiche appartiene al giudizio della storia, non a quello della fede».
Bisogna infine «osare la pace per fede» e comprendere che «sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo» . «Proclamo con la mia autorità e con la mia convinzione nella fede in Cristo e con la mia convinzione che la violenza è un male».
La fede è una luce oscura e potente: illumina il presente e rischiara le realtà future. Quando sarete giunti alla meta, dove ora sono io, non avrete più bisogno di quella lampada che ha illuminato i vostri passi. Nel pellegrinaggio terreno dovete rimanere desti, non disperdervi e dissiparvi, ma vegliare nella notte, vigilare e rivolgere al Signore la seguente preghiera: «Fa’ che, nelle frequenti carestie di felicità che contrassegnano i nostri giorni, non smettiamo di attendere con fede colui che verrà finalmente».
Non voglio tediarvi ancora, ma nel mio animo risuona un pensiero martellante che non posso trattenere e per questo vi esorto: non state rinchiusi in voi stessi, ma affacciatevi alla finestra della speranza, scorgerete non solo le foglie che cadono, ma vedrete sbocciare innumerevoli gemme. La risurrezione di Cristo si sta facendo strada e sta fecondando il mondo intero e vi attira a far parte della turba dei risorti. Considerate, pertanto, il titolo di “venerabile”, con il quale d’ora in poi vorrete chiamarmi, non come segno di merito, ma come il nome del sentiero che anche voi siete chiamati a percorrere: il cammino della santità. Ve l’ho detto tante volte e ve lo ripeto ancora: vi voglio bene. Soffrirei se dovessi restare senza di voi. Non temete, non vi lascio soli. Continuerò a starvi vicino. E con l’ala di riserva, sarà più facile spiccare insieme il volo. Vi attendo tutti, nessuno escluso. Buona festa dell’Immacolata, nel tempo e nell’eternità.
*vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca