Qualcuno scriveva che il passaggio dai nonostante ai “perché” della vitaè esperienza pasquale dolorosa quanto meravigliosa che autentica la nostra fede.
Un po’ come può essere successo a noi con l’insorgere del Coronavirus, dai nonostante quello che cominciava a verificarsi nella lontana Cina, ai “perché?” provocati dalla sua esplosione ‘alla porta accanto’.
Chissà che Dio stesso non si stupisca di quanto l’uomo, messo alle strette dagli eventi che costringono a essenzialità le espressioni più quotidiane e familiari, sappia tirar fuori dal bagaglio di ciò che neanche lui sa, risorse di resistenza e speranza, di creatività e solidarietà capaci di recuperare, nei tanti modi in cui la vita può sempre venirci incontro, ciò che viene a mancarci o ferirci, mentre minacciano tempeste di prova e ombre di morte.
In tanti ci contattano in questo ‘tempo del Coronavirus’ per raccontarci del modo di saggiare qualcosa della nostra dimensione claustrale nella riduzione di spazi e relazioni necessari per arginare il dilagare di un contagio che speriamo di debellare al più presto. Così come in tanti si affidano alla nostra preghiera per i movimenti ‘in uscita’ che per lavoro o per servizio non possono evitare, esponendo a rischio la propria persona e i loro cari.
In monastero questa limitazione sembra ‘in tono’ con la Quaresima appena terminata e sfociata nella Pasqua, un tempo in cui ogni anno riduciamo l’accoglienza esterna per dedicarci maggiormente alla vita di preghiera e di fraternità. Eppure neanche le mura robuste e i confini rassicuranti dei nostri spazi claustrali riescono a trattenere lo strano silenzio della città che ci avvisa di un mondo costretto ad una condizione di vita non scelta. Quanta fatica di relazione troppo ‘gomito a gomito’ e di pressione fisica e psicologica; di esposizione pericolosa al lavoro quanto di noia sfogata su poltrone di casa finora forse mai usate; di paura di non farcela e di tristezza che turba i nostri pensieri sul domani. Si comincia a fare i conti in tasca per quello che già stiamo perdendo e non solo in termini economici e a lampeggiare allarme rosso di tenuta nelle relazioni affettive e interpersonali condizionate da una libertà impedita, nel tentativo pur coraggioso di recuperare cose che nel tempo normale abbiamo rimandato o trascurato, mentre non sappiamo come e quando finirà.
Il pensiero va a chi non può permettersi di ritornare in casa tra i suoi, per un’urgenza di assistenza e sostegno che in momenti come questo raccontano l’Italia migliore, per la sua straordinaria capacità di non mollare e di credere che vita normale tornerà ad essere… quanto prima! E a quelli che sono rimasti bloccati lì dove si trovavano, o che sono passati da una prova tampone al cielo senza neanche un ultimo abbraccio. Di quante cose non siamo più molti certi da quando questo mostro virale 'va in giro cercando chi divorare', senza chiedere permesso, fino ad impedirci il bene che pur vorremmo fare. Non ci era mai successo di sperimentare tanta impotenza e inutilità come in questo momento in cui perfino l’esercizio della carità può diventare un’arma pericolosa, proprio come succede in situazione di guerra, e che guerra!
E mentre tanti sono esposti in prima linea a combattere contro il male ed anche la morte, in tanti altri siamo ‘trincerati’ nelle nostre case, attenti a non farci o fare del male, intenti a piegar le ginocchia e alzare le mani in preghiera per unire la nostra voce a quella di chi sta supplicando il bene del cielo, ché la terra da sola non ce la sta facendo.
Costretti ad una vita da sopravvivere e salvare a tutti i costi, stiamo esercitandoci a quel proverbiale ‘di necessità, virtù’, per rendere la vita meno amara.
Quanti modi di frequentarsi ‘in rete’ per rendere meno melanconico e frustrante l’esercizio virtuoso dell’#iorestoacasa, mentre la lontananza di chi si ama fa soffrire quanto la prossimità può far esasperare. È incoraggiante l’entusiasmo dei megafoni e altoparlanti che ‘sparano’ inni e canzoni da mano sul cuore, miste al suon di campane di chiese che annunciano una messa a porte chiuse, mentre si risponde al richiamo di una vita sociale che si incontra nelle piazze dei social o che si dà appuntamento sui balconi e i terrazzi di casa. Cerchiamo di riconquistare respiro di vita liberando il meglio di noi e manifestandolo nei nostri #andràtuttobene, che lenzuola e teli stesi al balcone, come una volta si faceva al passaggio della processione del Corpus Domini, svettano come bandiere di vittoria certa.
Dalle nostre chiese deserte pare risalire un gemito, ‘gemito come di doglie di parto’, per ogni sacerdote che celebra le nozze dell’eucaristia senza la comunità sua sposa, e che sospira un’impotenza mai sperimentata prima. Così come dalle case dove si torna a pregare, si soffre la mancanza della Chiesa per ogni dono sacramentale che non riceveremo in questo tempo, dal battesimo all’unzione degli infermi, come grazia che accompagna il cammino della nostra vita. Cerchiamo di condividerci in altro modo la gioia di comunione intorno alla mensa del Pane e della Parola che non celebriamo e di trasformare i gesti di generosità e carità che non possiamo fare in un quotidiano più paziente e misericordioso. Nella fede, finestra di cielo sul mondo, stiamo certamente sperimentando e imparando qualcosa di nuovo. Cerchiamo nutrimento di preghiera orientando i nostri telecomandi e le nostre ‘app’ a postazioni che ci facciano sentire Chiesa anche in casa. Pregna di fede è la speranza che sta facendo sgranare balbettii di Ave Maria quasi dimenticate anche dai cuori più irriducibili, visto che il male che ci sta succedendo non c’è ancora modo di sconfiggerlo altrimenti.
E questo mentre continua a persistere quel mondo-altro che negli angoli meno rassicuranti e più ambigui delle nostre storie e delle nostre città, così come nella ‘rete’ dei social, sembra non rendersi conto di ciò che ci sta succedendo, come se per debellare il contagio bastasse ubriacarsi di fumi goderecci e annegare nel seducente inganno del ‘mangiamo e beviamo che domani moriremo’. O ancora di quel lato oscuro della mente e del cuore umano che ordisce inganni e colpisce basso proprio mentre non ce la facciamo, infierendo nelle mille forme di mafia che saccheggiano dignità e speranza.
Quando, di fronte a tutto questo, avverto un certo disagio interiore nel sentirmi ‘al sicuro’ nella clausura che mi custodisce, riesco a trovare un po’ di pace nella preghiera e nella responsabilità di vivere ‘di bene in meglio’ questa mia vita, quest’unica meravigliosa e tragica vita che ancora oggi mi fa respirare e camminare! Mi sento ricoperta di sovrabbondanza per il bene che mi circonda, dalle mie sorelle con le quali trascorro più tempo insieme, al sole che albeggia anche oggi; dal pane che ci è donato da un panificio che sta lavorando per i poveri, all’offerta che ci è stata affidata perché possiamo dedicarla ai poveri che ci frequentano. Il tempo più disteso di cui ora 'godiamo' (ma a che prezzo!), mi aiuta a riflettere e a tirar fuori dal cassetto della memoria il ben di Dio di volti, storie, cose successe e doni ricevuti. Continuo a fare quello che faccio sempre ‘standoci dentro’ un po’di più, mentre a volte mi sento come sospesa in una nube, dove significati e sentimenti vagano in cerca di senso e luce. La dimensione del passato e quella del futuro sono più sfocate e meno pressanti, mentre questo oggi fragile e precario, carico di ‘perché’, è la cosa certa da vivere e in cui donarmi.
Mammamia, cosa ci sta succedendo? Cosa possiamo stringere di certo tra le mani perché la paura non ci distolga da ciò che nessuno può toglierci e non ci disperda nei rivoli dell’affanno e della preoccupazione che fanno male al cuore? Come possiamo crescere nella fede proprio ora che viene messa alla prova, se viene a mancarci il necessario? Come possiamo continuare a sopportare i colpi della vita che infierisce e ferisce fino alla morte?
Alcuni fermo-immagini, davvero solo alcuni che evocano potentemente i nostri perché: l’infermiera sfinita sulla sua scrivani da lavoro; la processione di vetture d’esercito trasformate in carri funebri, le file composte quanto sconcertanti dei resi poveri dal coronavirus, in attesa di una busta di viveri di prima necessità. E alcuni altri scatti che rispondono eloquentemente: il grido di vittoria dei medici intorno al malato stubato, la busta del pane e delle medicine che un giovane porta agli anziani del suo paese, il primo infettato che riuscirà a veder nascere suo figlio; le parole di chi ci governa e di chi ci guida cariche di responsabilità e di speranza; i passi incerti e solitari di un Papa che ostende Gesù al mondo intero in una serata piovosa e completamente deserta, come abbraccio universale di misericordia.
L'amore, l'amore che possiamo dentro e intorno a noi, nei mille e mille modi in cui lo possiamo esprimere e donare in questi giorni ridotti ed essenziali, quanto difficili e provati. Un amore fatto di cura di dettagli e attenzione ai particolari, di ascolto e attesa, di fiducia e pazienza, di piccoli\grandi gesti di gratuità e di perdono, di sospiri e preghiera, di premura e consolazione. Un amore di cose buone e belle che sempre possiamo, che vinca le nostre paure e ci custodisca gli uni le altre, anche se nella distanza, per raggiungere e sostenere chi più di noi sta lottando, soffrendo, morendo.
Non c’è clausura o grata che trattenga, non c’è normativa o regola di comportamento che limiti, non c’è virus che impedisca, quando l’amore resta!
Ora è Pasqua, storia di una pietra ribaltata e di un sepolcro ormai vuoto di quel Corpo a noi donato. Ora è Pasqua e la morte, che pure ha portato con sé tanti di noi e ha turbato i nostri sogni più belli e importanti, è stata vinta. Ora è Pasqua se la nostra fede provata a fuoco ci renderà più figli della risurrezione. Ora è Pasqua e presto saremo visitati dallo Spirito della ‘vita nuova’. Facciamo pasqua anche noi, noi tutti, se in quello che abbiamo vissuto, amato e sofferto, nonostante tutti i perché, il Vivente ci trovi sempre vivi!
*Monastero Clarisse San Luigi - Bisceglie (Bat)