Per secoli il legno d’ulivo nel Salento è stato sinonimo di “asche pe lu fuecu”. Non solo prodotte dai rami a lungo potati in genere con parsimonia e oculatezza; in alcuni periodi storici anche da espianti di massa, soprattutto in coincidenza con lunghi inverni freddi: tanto che il governo Giolitti 120 anni fa dispose il divieto di espianto degli ulivi, anche allora decimati da un disseccamento epidemico.
Da “asche” o “taccari”, il legno d’ulivo degradato poi in un ancora più vile pellet, negli ultimi otto anni: cioè, dall’inizio dell’espianto libero e di massa incentivato ai fini del reimpianto nelle province di Lecce e gran parte di Brindisi devastate dalla Xylella, con la concorrenza con altri patogeni. Deportati in alcune decine di milioni di quintali soprattutto verso le centrali biomassa calabresi: per produrre insieme energia alternativa e i corrispettivi incentivi pubblici, con significativi guadagni per le aziende locali. Ovviamente tutto in regola tranne che… il disonore. Disonore per il territorio salentino e pugliese - con responsabilità a scalare dalle istituzioni, alle associazioni fino al silenzio della società civile - sul piano economico e culturale. Un valore di non meno di duecento milioni di euro (solo per la quota del 10-15 % della parte pregiata del legno sul totale espiantato) sottratto alla comunità salentina; decine di migliaia di tronchi monumentali plurisecolari, sculture irripetibili, anch’essi abbandonati al vile destino di pellet. Nessuna capacità di visione lungimirante, nessun progetto pilota che facesse da modello virtuoso per gli agricoltori interessati a dare una destinazione più remunerativa - peraltro possibile e praticata solo da qualche avveduto -; nessun riscontro alla disponibilità di alcuni soggetti (es. i padri Comboniani) di ospitare nei loro spazi recintati i tronchi più significativi da affidare poi alla lavorazione di artisti-artigiani locali.
La mostra “Capolavori in legno d’ulivo”, ospitata fino al 7 gennaio 2024 in una sala del chiostro dell’antico seminario di Piazza Duomo a Lecce, vuol essere insieme denunzia e stimolo culturale, per un’alternativa anche eticamente virtuosa a tale criticità. In essa sono ospitate solo 18 delle centinaia di sculture, bassorilievi, intarsi, pregiati manufatti artigianali, frutto della creatività di altrettanti operatori salentini; ma sono oltre cento gli artisti attivi in provincia di Lecce. In gran parte ignorati, come l’intero settore negletto rispetto alla ceramica, alla cartapesta, alla pietra leccese e anche ai metalli. Da circa un anno coordinati nella Rete Cultura del legno d’ulivo, intendono creare comunità, superando un radicato individualismo: per esprimere coralmente la loro voce oltre che le loro opere.
Significativa la sensibilità dei vertici della curia leccese, dall’arch. Giorgio Rizzo, all’economo mons. Antonio Montinaro, all’arcivescovo Michele Seccia; quest’ultimo protagonista entusiasta per la qualità delle opere esposte, nella serata di presentazione pubblica della rassegna, generoso di espressioni di apprezzamento e di apertura a ulteriori collaborazioni. Altrettanto forte e motivata la visita di mons. Cacucci, arcivescovo emerito di Bari-Bitonto, interessato a conoscere aspetti meno comuni dell’arte del legno e anche del disseccamento degli ulivi.
Un percorso virtuoso, ospitato nel seminario, insieme a quello in fieri avviato dalla Rete con il Museo Castromediano; ci si augura sia sostenuto coralmente e che sia foriero di crescita culturale, etica e anche potenzialmente economica per il territorio.