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Ringrazio Portalecce per l’opportunità che offre anche ad un “cristiano qualunque”, tale io mi ritengo, di partecipare alla gioia dell’intera comunità salentina, per l’importante servizio alla Chiesa universale cui è stato chiamato colui che in molti, nel cuore, continuiamo a chiamare “don Marcello”.

 

 

Essendo anch’io uno tra i tanti laici cresciuti nella parrocchia matrice di Monteroni, la sua comunità, per quasi un quarto di secolo, fin quando egli non prese possesso della cattedra episcopale di Oria, ho avuto il privilegio di partecipare all’eucaristia domenicale da lui presieduta. Tuttavia il mio primo ricordo della sua figura risale alla veglia pasquale del 1971, quando l’indimenticato don Achille Rizzo, parroco in quei tempi, presentò all’assemblea liturgica il giovane Marcello Semeraro, che per la prima volta assisteva il celebrante all’altare rivestito della dalmatica diaconale. A quasi cinquanta anni di distanza lo vedo, in televisione, ai piedi di Papa Francesco, rivestito della porpora cardinalizia.

Se si guarda questo percorso attraverso la lente della fede, quasi nulla è cambiato, entrambi gli abiti, infatti, sono simboli che rimandano al servizio del discepolo. Cambia soltanto il grado e la responsabilità. Il secondo abito ricorda che il servizio richiesto pretende un impegno e una disponibilità totale, “usque ad sanguinem” essere fedeli al Signore e servire la Chiesa uniti a Pietro, fino all’effusione del sangue.

Che cosa è accaduto in questo mezzo secolo perché un giovane, nato in una periferia del mondo, quale, in effetti, era allora il Salento, abbia potuto ricevere una chiamata - anche il cardinalato è una vocazione - così rara e impegnativa? Sempre osservando con gli occhi della fede potremmo rispondere: “è un mistero, è solo il Signore che chiama!”. Tuttavia, lo sappiamo, ogni chiamata, per andare a compimento, esige una risposta, un sì convinto e deciso, un sì che non tema di mettere in gioco tutto ciò che si possiede, un sì che comporta dedizione, studio e lavoro assidui, sacrificio e fatica, rinuncia a tante piccole comode abitudini, un sì supportato da fedeltà e preghiera.

Ritorno alle celebrazioni domenicali in parrocchia, sempre affollate, erano per noi laici una bella e gratificante abitudine, ma a don Marcello che insegnava teologia a Molfetta e a Roma, costavano un settimanale andare su e giù per l’Italia. Il nostro ascoltare attenti le sue omelie era frutto del suo dire scaturito dallo studio lungo e profondo della sacra scrittura, della tradizione dai Padri fino ai maestri della teologia contemporanea radicata nel Concilio Vaticano II, e il nostro era anche un ascoltare sollecitato dalla testimonianza di una vita all’insegna della sobrietà dettata da scelte sinceramente evangeliche.

A tal proposito rammento un aneddoto: Il nostro don Marcello era già stato nominato Cappellano di Sua Santità, cioè monsignore, e teneva la docenza presso l’Università Lateranense, era dunque una personalità a dir poco illustre. Dopo la messa gli si avvicinarono, come consuetudine, un gruppo di donne, quelle splendide figure alle quali tanto devono le nostre comunità, queste oltre a congratularsi per l’omelia, si complimentarono per l’ottimo gusto del suo nuovo cappotto. Lui rispose col suo tipico sorriso: “Davvero vi piace? È di mio padre, me lo sono fatto riadattare dal sarto”.

Ritorniamo all’oggi, non mi ha stupito quindi che, il primo pensiero del porporato, dopo l’imposizione della berretta cardinalizia sia stato quello di recarsi a pregare sulla tomba di San Paolo VI, il Papa che tra mille tesori ce ne ha lasciato uno racchiuso in un semplice ammonimento: ”L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri e se ascolta i maestri è perché sono testimoni”. 

Ebbene, possiamo affermarlo: il nostro card. Semeraro è certamente un maestro ma anche e soprattutto un testimone.

 

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