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Celebrare un anniversario di Lorenzo Milani (27.5.1923 - 26.6.1967), come di tutti i profeti, è parecchio difficile: i profeti, don Lorenzo in primis, difficilmente si adattano ai canoni “celebrazionisti”, molto spesso di circostanza quanto retorici.

 

 

Milani per essere celebrato deve essere prima di tutto “incontrato”. Ognuno può raccontare il suo incontro con Milani e porlo a confronto con quello altrui e scoprirà - e questa è la bellezza dei profeti - l’eco tutto personale che, in lei o lui, hanno le parole del priore di Barbiana.  Personalmente - ma non sono il solo - ho “incontrato” Milani in due grandi riferimenti: la parola e la politica.

Egli fu molto attento alla povertà di linguaggio: per lui “la povertà non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cultura e sulla funzione sociale” (Esperienze pastorali). Chi incontra, come prete, docente, educatore, questa povertà non può non soffermarsi sul testo di Milani: “Ciò che manca ai miei figlioli è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude” (Lettere). Scolari, studenti, educandi per Milani vanno “nutriti” con le parole, proprio perché “il fattore determinante – testo nella lettera ai Giudici - è a nostro avviso la padronanza della lingua e del lessico”. E, per farlo come educatore, l’esempio di Milani sprona a conoscere le parole, a soffrirle e vagliarle nello studio e nella prassi di vita. L’insegnare nuove parole e l’aiutare a prendere coscienza di quelle possedute, ovviamente, avvengono in vari contesti. E sul suo Milani era molto crudo: descriveva il suo lavoro educativo e pastorale in relazione alla promozione ed evangelizzazione sintetizzandolo nella famosa espressione: “Da bestie si può diventare uomini e da uomini santi, ma da bestie a santi in un passo solo non si può diventare” (Esperienze pastorali). Bisogna superare il suo linguaggio forte ed immediato, duro ed essenziale, per scoprire la sapienza e l’amore del prete fiorentino.

E poi la politica. Milani ci invita a riflettere non solo sullo stile educativo, ma anche sui contenuti che trasmettiamo. Il famoso passo della Lettera ad una professoressa contiene, in materia, dei riferimenti molto preziosi. Rileggiamolo: «Poi insegnando imparavo tante cose. Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia. Dall’avarizia non ero mica vaccinato. Sotto gli esami avevo voglia di mandare al diavolo i piccoli e studiare per me. Ero un ragazzo come i vostri, ma lassù non lo potevo confessare né agli altri né a me stesso. Mi toccava essere generoso anche quando non ero. A voi vi parrà poco [cara signora professoressa, ndr]. Ma con i vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate soltanto a farsi strada” (Lettera a una professoressa).

È importante notare come la scuola di Barbiana distingua due modelli di persona: chi ha cura degli altri e dei loro problemi – l’I care – e chi vive per farsi i fatti propri. Come dire, da una parte c’è la politica e dall’altra l’avarizia. L’indicazione, dal punto di vista antropologico ed etico, conserva tutta la sua validità ancora oggi. È nell’impegno educativo che abbiamo la possibilità di verificare quanto i nostri piccoli e giovani sono già impregnati di quell’individualismo borghese ed affarista; è negli spazi educativi che abbiamo la possibilità di mettere in crisi questo modello e di educare a scoprire la propria natura relazionale e a coltivarsi eticamente, ricercando e attuando le virtù che permettono di realizzare pienamente la propria dignità.

Il riferimento all’educare cittadini sovrani ci permette anche di comprendere la valenza sociale e politica dell’educazione, dell’introduzione al mondo delle parole, ai loro significati e usi. Sul muro della Scuola di Barbiana è ancora visibile la famosa frase, voluta da Milani: “L’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone”. Credo che, se viviamo il nostro impegno educativo seriamente ed onestamente, sono tante le occasioni in cui ci accorgiamo che molti processi di potere - sia esso economico, politico, religioso - sono determinati dalla risorsa conoscenza e chi ne è privo, rischia sempre di essere la vittima di quel potere che non vuole educare e far progredire, ma solo spadroneggiare e sfruttare. L’attuale successo di una parte della cultura di destra, razzista, omofoba e affaristica, ne è un esempio, che fa molte vittime tra piccoli e grandi.

In sintesi parole e politica hanno bisogno di un fine alto e pregnante. Quello che i ragazzi di Milani proponevano nella famosa Lettera: “Cercasi un fine. Bisogna che il fine sia onesto. Grande. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come lei vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte”.

 

 

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