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Ormai si sa, la Casa della carità di Lecce rappresenta un punto di riferimento per decine di persone che vivono condizioni di disagio.

Che si tratti di affrontare una notte fredda, sfamarsi a mezzogiorno o lavarsi la mattina, la Casa della Carità resta un porto sicuro per gran parte di queste persone che si trovano a dover affrontare un’emergenza dietro l’altra.

Ma era da un po’ che ci chiedevamo: “È questa la migliore risposta per fronteggiare la povertà?”.

Vedere sempre le stesse persone che venivano a bussare in cerca di aiuto ci dava l’idea che il problema fosse, giorno dopo giorno, solo parzialmente tamponato.

Così, facendo autocritica, con Simona Abate (coordinatrice della Casa della carità) abbiamo iniziato una profonda riflessione che avesse come obiettivo un radicale cambiamento: dall’offrire una risposta all’emergenza ad offrire un percorso di accompagnamento all’autodeterminazione della persona.

Ci siamo interrogati su cos’è che accomuna la maggior parte delle persone che chiedono aiuto. Abbiamo osservato che chi vive la difficoltà vive una condizione di disordine nel senso più ampio del termine: disordine relazionale, sociale, psicologico, di organizzazione dei ritmi di vita, di ordine della propria immagine, ecc.

Tale disordine porta inevitabilmente alla  sofferenza. Ma se queste persone non hanno una alternativa di vita più ordinata non hanno scelta che permanere nella propria sofferenza.

Pensiamoci bene. Se sei costantemente costretto a fronteggiare ogni giorno l’emergenza di un piatto caldo, di non sapere dove passare la notte ed altre incombenze quotidiane, non hai modo di fermarti a riflettere, pensare e progettare un’alternativa di vita più percorribile che ti renda autosufficiente e autodeterminato.

Rispondere alle emergenze giornaliere non fa altro che rimandare a domani quelle esigenze che si ripresenteranno giornalmente.

Probabilmente queste persone vivono una condizione di disordine perché non hanno mai avuto una alternativa.

Mission della casa della carità diventa proporre un’alternativa, un’alternativa di ordine nella vita di un bisognoso.

Questa alternativa deve essere una scelta della persona.

Ci tengo ad evidenziare la parola “proporre” perché si tratta di una proposta che si fa alla persona bisognosa: la proposta di una vita più ordinata.

Dare dignità alla persona inizia col darle il potere di operare una scelta, inclusa la scelta di continuare la propria vita di disordine o di scegliere un’alternativa diversa: se l’alternativa è migliore o peggiore, sarà l’ospite stesso a sceglierlo e deciderlo.

Questa nostra riflessione ha avuto l’esito di un nuovo protocollo di accoglienza.

In breve, ad una persona che chiede accoglienza gli viene garantita ospitalità per un massimo di 7 giorni. Qualora necessiti di un tempo maggiore di accoglienza potrà ottenerlo a patto che si impegni in un percorso di autodeterminazione, autonomia e reinserimento sociale.

Viene siglato un vero e proprio “patto di accompagnamento”, poiché la persona viene accompagnata a realizzare il proprio progetto di vita, ossia un progetto di autorealizzazione che l’ospite definisce per sé stesso con la supervisione dell’equipe.

Dalla firme del patto inizieranno degli incontri con lo psicologo al fine di co-costruire il proprio progetto di vita. Si partirà proprio dai desideri dell’ospite, dalle sue inclinazioni, le sue aspirazioni e le sue risorse per costruire insieme a lui la meta: una vita di autonomia e autodeterminazione.

Sarà quindi necessario concordare dei macro obiettivi raggiungibili e dei sotto obiettivi da raggiungere settimanalmente.

La valutazione del cammino di ciascun ospite sarà fondamentale: ci consentirà sia di monitorare i risultati ma anche i fallimenti. Monitorare i fallimenti dell’ospite è fondamentale perché consente di entrare nello specifico delle proprie difficoltà, affrontarle e risolverle per poi raggiungere nuovi obiettivi.

Naturalmente dalla valutazione si rileverà soprattutto l’impegno dell’ospite nel percorso, che, nel momento in cui risulta non esserci, dopo attenti interventi per incentivare la motivazione, diviene motivo per la fuoriuscita dal protocollo di accoglienza e accompagnamento. Questo non vuol dire mettere l’ospite sulla strada, ma vuol dire sempre rispettare la sua dignità nelle scelte che opera: l’ospite è sempre ben consapevole che uno scarso impegno da parte sua comporta la conclusione del suo percorso e nel momento in cui fa mancare il suo impegno, malgrado il sostengo e lo stimolo dell’equipe, è cosciente che ciò comporterà la conclusione del suo percorso.

A ciascun ospite che firma il patto di accompagnamento verrà dato il proprio diario di cammino, un quaderno sul quale definire il proprio progetto di vita, definire i propri obiettivi settimanali e fare la conta dei propri successi.

Il percorso di ciascun ospite sarà supervisionato e coordinato dallo psicologo, ma verrà seguito dalla mediatrice interculturale, dai volontari nell’ascolto e dagli operatori che attiveranno dei laboratori culturali - educativi atti a stimolare la sensibilità degli ospiti in cammino e a favorire la loro integrazione sociale.

Fino ad adesso il servizio mensa, accoglienza notturna, docce, consulenza legale, consulenza psicologica, la mediazione interculturale, l’ascolto dei volontari, erano una serie di servizi che venivano offerti in modo svincolato tra loro, ad uso libero dell’ospite. Ottimo se la risposta è di tipo emergenziale. Ma se offriamo un percorso educativo e di autonomia della persona questi servizi devono lavorare in rete in maniera coordinata ed ordinata.

Non possiamo offrire un’alternativa di ordine se il servizio che offriamo non è offerto in modo ordinato.

Ordine vuol dire chiarezza dei confini e se i confini sono chiari diviene molto più facile operare delle scelte per sé stessi nel massimo della consapevolezza. È questo che garantisce dignità: l’assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

L’etimologia della parola “responsabilità” richiama la capacità di dare risposte (di fronte alle difficoltà per esempio). Vorrei che sia questa la parola che accompagna il nostro operato. La responsabilità nel nostro impegno a rispondere alle difficoltà di chi ci chiede aiuto. Ma allo stesso tempo la responsabilità che ogni bisognoso nostro ospite ha, una responsabilità che si esprime come potere nel rispondere alle proprie difficoltà, operando scelte libere che possono essere da noi comprese o no, ma certamente rispettate nella loro dignità di scelte libere fatte da persone libere.

La nostra responsabilità come operatori sta nel proporre la nostra alternativa di ordine. La nostra responsabilità termina e confina nel momento in cui inizia la responsabilità dell’ospite di accogliere questa proposta o rifiutarla.

Questo vuol dire garantire dignità.

Questo vuol dire tutelare i confini, renderli chiari e garantire un ordine, quell’ordine di cui è fatta l’alternativa che proponiamo a chi, di quell’ordine, ne ha certamente un estremo bisogno.

*psicologo presso Casa della Carità di Lecce

 

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