“Comunione e missione sono l’orizzonte fondamentale della formazione, che non si esaurisce nel periodo del seminario ma è permanente, perché il candidato è un discepolo di Cristo nel momento in cui dice il suo sì al Signore e lo rimane per sempre”.
Mons. Stefano Manetti, vescovo di Fiesole e presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata, commenta la “Ratio formationis sacerdotalis per i seminari in Italia” esaminata e approvata dalla recente Assemblea della Cei di Assisi.
La formazione dei futuri preti è stata al centro dell’Assemblea.
È stato un momento di confronto sincero e aperto. Ora attendiamo la confirmatio da parte del Dicastero per il Clero. La Ratio è il frutto di un’ampia consultazione, a partire dai formatori, dai seminari e dai vescovi. L’essenza è costituita da due momenti fondamentali. Il primo è la formazione spirituale, umana e comunitaria, centrata sulla conoscenza di sé. Questa fase costituisce i primi tre anni, perché oggi è necessaria una formazione approfondita e seria per costruire una solida vita spirituale e cominciare a gustare la vita fraterna nella comunità del seminario.
E la seconda fase?
Prevede un anno di esperienza pastorale, caritativa o missionaria, da vivere fuori dal seminario. È un tempo che i formatori proporranno al momento opportuno, comunque dopo l’ammissione dei candidati agli ordini. È una sorta di iniziazione al popolo di Dio, la volontà di introdurre gradualmente nella realtà ecclesiale, con lo scopo principale di imparare a conoscere il popolo di Dio, ad amarlo, a servirlo e a camminare insieme. Ci sarà una circolarità tra prassi pastorale, vissuti interiori personali, studio teologico, vita liturgica e comunitaria.
Dunque, la vita nelle comunità è un elemento importante nel percorso di crescita del sacerdote?
Vogliamo dare un ampio spazio alla vita nelle comunità, secondo la creatività dei formatori. È un accompagnamento graduale sempre più intenso, perché l’uscita dal seminario non sia sentita come un salto nell’ignoto, ma il prete novello abbia già una certa esperienza e un amore per la comunità cristiana. La prima tappa di costruzione del sé interiore avviene più all’interno del seminario; la seconda, invece, prevede il coinvolgimento di tutta la comunità cristiana nella formazione. In questo abbiamo recepito una richiesta che è venuta dal Cammino sinodale: coinvolgere la comunità cristiana nella formazione dei presbiteri.
Cosa accomuna i seminaristi di oggi?
La necessità di una formazione interiore, di sfidare l’individualismo che segna profondamente la cultura in cui viviamo. Sono ragazzi che hanno grande sete di paternità e la trovano, spesso per la prima volta, nel rapporto educativo in seminario. Sono giovani che apprezzano la vita e, quando la scoprono, apprezzano ancor di più la vita comunitaria. Però devono essere accompagnati. La chiave della Ratio è mettere al centro la persona con la sua storia, la sua indole e i suoi tempi. Anche per questo si parla di accompagnamento personalizzato, che superi certi automatismi. Si avanza secondo le tappe raggiunte dal candidato, la formazione è alla persona intesa a tutto campo con la sua dimensione umana, spirituale, teologica e pastorale.
C’è preoccupazione per i numeri delle vocazioni al sacerdozio?
È una sfida che ci interpella e, se accettata, ci farà crescere. Ci costringe a elevare la qualità dell’annuncio e della proposta. Dobbiamo puntare sulla qualità. Se ci si ferma alla quantità, si perde il treno. Noi dobbiamo offrire una proposta formativa di qualità, una evangelizzazione di qualità. Dobbiamo avere il coraggio di annunciare davvero il Vangelo, perché i giovani ce lo chiedono. Accettare questa realtà è la condizione indispensabile per un percorso autentico di formazione. Se non c’è l’incontro con Cristo, che prevede una conversione vera, se il ragazzo non è raggiunto dalla Parola di Dio, saremo sconfitti. Bisogna dare spazio alla Parola, la Chiesa è chiamata ad accompagnare l’opera di Dio. Non siamo noi che creiamo le vocazioni. La prima verifica del discernimento, infatti, è che ci sia stata una chiamata vera del Signore.
Che prete avrà la Chiesa italiana?
Un uomo di relazione, che viva la prossimità con tutti coloro che il Signore gli affida, che sappia camminare con il popolo di Dio, non venendo meno alle sue responsabilità di essere guida, punto di riferimento, presidente dell’Eucarestia e dell’annuncio, ma capace di rifuggire ogni forma di clericalismo. Quando il seminarista arriva davanti al vescovo per l’Ordinazione, la sfida è che si presenti con fede, cosciente dei propri limiti ma anche fiducioso e consapevole di essere amato da Dio e dalla Chiesa.
Senza l’ansia di essere perfetto?
Non è richiesta la perfezione perché il seminarista sia ordinato, ma che abbia imparato a lasciarsi crescere dalla comunità ecclesiale, da Dio e dalla Chiesa. E poi deve essere un prete missionario. Comunione e missione sono l’orizzonte fondamentale della formazione, che non si esaurisce nel periodo del seminario ma è permanente, perché il candidato è un discepolo di Cristo nel momento in cui dice il suo sì al Signore e lo rimane per sempre. Inizia un cammino di formazione che non finisce mai. La formazione iniziale e quella permanente sono un’unica cosa. Dare continuità a questo percorso è la sfida che vogliamo affrontare.