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Il suo futuro sembrava già scritto: fare il farmacista, nel solco dell’attività di famiglia. E invece l’amore per la ricerca ha cambiato le carte in tavola e l’ha portato su altre strade.

Tant’è che dopo la laurea in Farmacia, conseguita a Bari col massimo dei voti e la lode, ha inseguito il suo cuore e la sua missione nei laboratori. Ricercatore, scienziato e professore ordinario di biochimica. Fino a diventare Rettore dell’Università del Salento. Lui è Vincenzo Zara, 59 anni, salentino originario di Spongano, dal primo novembre 2013 al timone dell’Ateneo leccese. E in occasione dell’incontro, un amichevole scambio di battute nella nostra redazione tra Zara e l’arcivescovo di Lecce, Michele Seccia, ha preceduto l’intervista a tutto campo.

Rettore magnifico, partiamo da una autodefinizione. Chi è Vincenzo Zara?

Una persona che si è dedicata essenzialmente alla scienza. Dal momento in cui ho intrapreso il percorso universitario mi sono occupato di ricerca scientifica decidendo di abbandonare l’attività professionale di famiglia: la farmacia. Ero, quindi, predestinato, eppure mi sono innamorato della ricerca scientifica. E da lì ho avviato la mia carriera accademica, che ha mosso i primi passi sin dalla laurea.

Qualche ricordo della sua infanzia?

I lunghi periodi trascorsi a Spongano, il mio paesino di origine, dove vive tuttora mia madre. Le lunghe estati passate lì, un grande giardino e la possibilità di divertirsi con i miei fratelli: una famiglia, peraltro, numerosa con due fratelli e due sorelle. E il tempo che scorreva più lento rispetto alla vita frenetica di oggi. Sembrava quasi tutto immutabile. Un bellissimo ricordo.

Che significa essere Rettore dell’Università del Salento?

Significa avere un compito molto gravoso. La situazione attuale per tutti gli Atenei non è rosea. Di conseguenza bisogna battagliare costantemente, ogni giorno, soprattutto al Ministero, a Roma, per fare in modo che l’Università del Salento abbia lo spazio che merita a livello nazionale.

Qual è l’ostacolo più grande?

Senza dubbio i finanziamenti che non sono adeguati al nostro modello di sviluppo e alla crescita a cui sta andando incontro in quest’ultimo periodo l’Università del Salento.

Come ha trovato e come è ora l’Ateneo leccese?

Credo sia un po’ più tranquillo rispetto a qualche anno fa.

Una Università quindi pacificata dopo il vento di guerra e le tensioni che hanno attraversato il passato?

Sostanzialmente sì. Ora abbiamo un dialogo molto aperto e franco, anche all’interno degli organi accademici. Spesso anche vivace, ma sempre animato da spirito costruttivo.

Il giorno più bello della sua vita e quello da Rettore?

Quando è nato mio figlio Antonio, nel 1992. è stato il momento più bello della mia vita: uno spartiacque tra la vita un po’ più spensierata e l’avvento delle responsabilità di padre. Per il resto, il giorno della mia elezione a Rettore. Soprattutto perché, in quel momento, la comunità accademica convergeva su un unico nominativo e riusciva a fare sintesi attorno alla mia persona.

Mentre quali sono stati i momenti più difficili?

Forse di fronte ai problemi e alle difficoltà l’entusiasmo si ridimensiona. E ci si rende conto che l’attività di gestione dell’Università è tutt’altro che semplice Le difficoltà non sono mancate, ma non sono mai state così forti da scoraggiarmi. In genere, sia a livello lavorativo sia nella sfera personale, sono dotato di molto entusiasmo. Difficilmente mi lascio abbattere dalle situazioni negative. Certo, le cose che spaventano di più sono quelle irreparabili, come le malattie a cui è impossibile ovviare.

Cosa le manca della vita da professore?

Il contatto con gli studenti, il tempo speso con loro, soprattutto la vita attiva in laboratorio alle prese con gli esperimenti. Lavorare con i gruppi di ricerca, portare avanti progetti. E poi l’attività didattica piena, che comunque continuo a fare, anche se dimezzata, considerati gli impegni gestionali. Il rapporto diretto con gli studenti, l’interlocuzione, il ricevimento e lo scambio con loro per me sono fondamentali.

Cosa le mancherà della vita da Rettore?

I momenti di confronto e coordinamento: quando si cerca di conciliare più posizioni per raggiungere una soluzione e fare sintesi. La soddisfazione di questo sforzo e dei relativi risultati.

Tra un anno scadrà il suo mandato: ad oggi che voto si dà? Un bel 30?

25 o al massimo 26. Una valutazione credo obiettiva. Sono consapevole di quello che è stato fatto e di quello che resta ancora da fare. Alcune cose non si sono concretizzate per via dei finanziamenti: con più risorse si sarebbe potuto fare molto di più.

Quanto sono importanti per lei, che è un uomo di scienza, i sentimenti e l’amore?

Vengono prima di tutto. Creare, però, una dicotomia tra i due aspetti è spesso artificioso. L’amore e i sentimenti in vario modo sono collegati all’esperienza scientifica che, per esempio, cerca di spiegare la genesi dell’emotività. Inoltre, non bisogna avere barriere, i due mondi non sono in contrapposizione. Facendo ricerca ci si rende conto che ogni risultato che si ottiene apre lo spiraglio a nuove scoperte, non esiste mai una scoperta definitiva o assoluta. La ricerca, quindi, è sempre in cammino: svela anche le caratteristiche dell’emotività e dei sentimenti umani, aspetti molto dinamici e sempre in evoluzione.

Che rapporti ha con la fede?

Sono un uomo di fede. E quindi sono credente. Alcune volte resto quasi meravigliato di fronte alla bellezza di tutto ciò che ci circonda. E questo forse è il momento in cui sono ancora più convinto dell’esistenza di qualcosa di più grande rispetto a quello che noi, uomini di scienza, comunemente riteniamo.

Scienza e Fede possono dialogare?

Devono dialogare. Se lo scienziato estremizza diventa un assolutista. E quello è il momento in cui può commettere errori. Dovrebbe essere, invece, sempre conscio dei propri limiti.

Quanto è difficile per uno scienziato come lei credere nell’esistenza di una vita dopo la morte?

Mi sono posto diverse volte la domanda e cerco ancora una risposta. In ogni caso, credo in qualcosa di più grande rispetto a quello che noi umani riusciamo a realizzare e concepire.

 

Che idea si è fatta di Papa Francesco?

Una persona rivoluzionaria, che riesce a parlare in maniera semplice, diretta e schietta, anche correndo il rischio di commettere qualche gaffe. Non ha retro-pensieri, è molto spontaneo, ed è la cosa più bella.

Che rapporti ci sono stati in questi anni tra Università e Chiesa locale?

Molto buoni. Abbiamo organizzato diverse iniziative in comune. Ricordo un evento che ha segnato la comunità accademica in maniera significativa: la laurea honoris causa conferita al patriarca Bartolomeo I, che è stato con noi per alcuni giorni. Si è creata una collaborazione continua col vescovo di allora, monsignor D’Ambrosio. E dal protocollo ufficiale previsto per la visita siamo passati ai contatti e agli incontri informali e continui tra me, il vescovo e il patriarca. Una’iniziativa bellissima, figlia della proficua sinergia tra Chiesa e Università. Un momento eccezionale per questa terra.

Il mondo universitario di quale riforma avrebbe bisogno?

Ha bisogno di semplificazione. Servirebbe una riforma in grado di togliere tutti i vincoli di natura burocratica che attanagliano le università. Ora per fare buona didattica, buona ricerca e buona gestione siamo costretti a seguire una serie di protocolli formali che condizionano e ritardano le attività. Se avessimo iter più semplici e finanziamenti adeguati, si potrebbe fare di più e meglio.

Come scorre la sua vita fuori dall’Università?

Cerco di isolarmi perché ho bisogno di tranquillità e di riflessione. Una delle cose più importanti che mi manca è il tempo per riflettere adeguatamente. Così appena posso mi rifugio in campagna, o al mare, e cerco il silenzio.

Quali sono stati i suoi maestri?

A livello scolastico e accademico, tutti coloro che mi hanno indirizzato sulla via del rigore scientifico. E che mi hanno insegnato a non dare mai nulla per scontato, trasmettendomi invece l’importanza di continuare a sperimentare. Maestri di vita, invece, certamente i miei genitori, in particolare mio padre che mi ha inculcato il valore dell’onestà da tutti i punti di vista: anche onestà intellettuale, a partire dal dovere di lavorare per il bene collettivo e non per interesse personale.

Le piace l’Italia così come è oggi?

Non moltissimo. Si stanno acuendo le diversità. E invece di portare ad una sintesi, e trovare una via razionale e logica per risolvere le questioni, talvolta si amplificano divergenze e criticità.

Cos’è che manca?

Manca, a mio avviso, una visione di sistema. E probabilmente manca anche la politica intesa e praticata nella forma più alta e nobile del termine: come servizio alla comunità per individuare soluzioni ai problemi di tutti.

Come vorrebbe essere ricordato?

Come una persona che ha dialogato con tutti, senza porre barriere; che ha cercato in tutta onestà di risolvere i problemi. A volte ci sono riuscito, a volte meno, ma non è mai mancata l’onestà intellettuale.

Cosa le piace leggere e che film le piace vedere?

Leggo un po’ di tutto, dai quotidiani locali a quelli nazionali. Molte riviste, anche libri in lingua originale, inglese o americano, in modo da esercitare la lingua. Per il resto non vado al cinema da tantissimo tempo, anche per via delle pay-tv che ti danno la possibilità di vedere i film in casa.  

Cosa c’è nel suo futuro?

C’è la voglia e l’intenzione di tornare a fare didattica e ricerca. E quindi tornare a fare il professore universitario. Ho una resistenza enorme e così mi chiamano scherzosamente “duracell”. In Rettorato lavoro 12 ore di fila, come avveniva in laboratorio. L’auspicio, quindi, è che la mia resistenza duri il più possibile così da continuare a dare il mio contributo concreto alla comunità accademica e soprattutto agli studenti.

 

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