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Non soffre di nostalgia, anche se - ovviamente - resta un filo rosso di affetto ad unirlo alla città che gli ha dato i natali, e dove ancora vivono i suoi genitori.

Non tutti sanno infatti che Alfredo Mantovano, dopo l’addio (o arrivederci?) alla politica, si è trasferito a Roma, dove a maggio 2013 è diventato consigliere della IV sezione penale della Corte di Appello, occupandosi di misure di prevenzione e di diritto penale europeo e internazionale e coordinando l'ufficio delle rogatorie internazionali. Da ottobre di quest’anno, invece, è consigliere alla seconda sezione penale della Corte di Cassazione; ma si occupa anche di questioni internazionali altrettanto importanti. Leggete ancora, e saprete in che senso.

Chi è oggi il “romano” Alfredo Mantovano?

Un giudice che cerca di svolgere, per quelle che sono le sue possibilità, un lavoro molto impegnativo. Un uomo in prima linea soprattutto su due fronti: quello della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre”, della cui sezione italiana sono presidente da quasi quattro anni, e quello del centro studi “Rosario Livatino”, che si occupa di studio e approfondimento di tematiche giuridiche riguardanti i temi della vita, della famiglia e della libertà religiosa. Un pool che comprende avvocati, magistrati, docenti di materie giuridiche, intitolato quattro anni fa al giovane giudice ucciso dalla mafia, per il quale si è di recente conclusa ad Agrigento la fase diocesana del processo di beatificazione, ora trasmesso alla Congregazione delle Cause dei Santi. Di questo centro sono vicepresidente. Livatino esorta alla coerenza tra fede, cultura e impegno professionale: l’ultimo convegno l’abbiamo tenuto tre settimane fa, nell’aula magna della Corte di Cassazione, nel quarantennio dell’approvazione della legge 194 sull’aborto.

Rimpianti leccesi?

No, perché tutte queste attività mi trattengono a Roma e perché a Roma vive ormai tutta la mia famiglia. Ciò detto, almeno un paio di fine settimana al mese sono qui a Lecce, perché ci sono i miei genitori, mia suocera ed è ovviamente la mia città. Un legame che resta.

Continua a seguire comunque gli eventi leccesi.

Sì, e trovo che i leccesi potrebbero amarsi un po’ di più, ed essere meno disincantati rispetto ad un territorio che detiene ricchezze che difficilmente si trovano tutte insieme sul territorio nazionale.

Neanche a Roma?

Roma non è comparabile a nessun altro luogo, perché è città a sé, ma Lecce è tenuta assai meglio, ed è un dato incontrovertibile e frutto di un lavoro che dura almeno da vent’anni. Una città di ricchezze recuperate e rese fruibili quando era sindaco Adriana Poli Bortone. È stato quello il momento di svolta della città, poi assecondato dalle altre amministrazioni. 

Il che ha smosso energie sopite che hanno portato molti leccesi e salentini a realizzarsi e a occupare posti chiave ovunque, dalla moda al cinema, dall’arte alla scienza.

È vero. Questo fatto per un verso inorgoglisce, ma fa riflettere su due cose: la prima è la tentazione della supponenza cui sovente il leccese cede, e non è una bella cosa. La seconda obbliga a chiedersi perché i salentini debbano ancora andare fuori, per emergere. È vero che nemo propheta in patria, ma è un gran peccato per il Salento, e allora dovremmo lavorare tutti per far sì che le risorse del territorio possano manifestarsi, poi anche perché restino qui. E questo lo dico senza demonizzare niente e nessuno, perché allora dovrei parlare anche contro me stesso.

 

Perché quest’epifania completa dei talenti in loco salentino non si è ancora prodotta?

Non sempre sappiamo fare gioco di squadra, né tra istituzioni né con i privati. Altri territori lo hanno saputo fare perché è nel loro dna, sono culturalmente avviati per questo, e perché non aspettano che siano altri a fare il primo passo. Faccio un esempio. Poco più di un mese fa un’alluvione ha devastato larga parte del Veneto: a  distanza di un mese, in Veneto,  sembra quasi che non sia successo nulla, perché in quelle zone nessuno si siede e aspetta pensando “Cosa farà lo Stato per noi?”, ma, al contrario, si dice “Cosa possiamo fare noi per lo Stato?”.

Filosofia kennediana.

E questo è il modo di pensare in automatico degli abitanti di quel territorio, ma anche delle istituzioni che lo abitano. Da noi, invece,  le risorse del territorio spesso non sono in comunicazione tra di loro, oppure il loro dialogo è apparente, e questo depotenzia molto tutto quello che questo territorio potrebbe esprimere. E parlo soprattutto del Salento, perché la situazione del resto della Puglia è a tratti diversa.

Basta individualismo, evviva la sana competizione.

E la reciproca collaborazione. Ma noi purtroppo siamo tendenzialmente una terra di solisti che immaginano di essere ognuno l’equivalente di Tito Schipa, ciascuno nel suo settore. Ma Tito Schipa canta meglio se dietro ha un’orchestra di fiati e violini, un fatto assolutamente non secondario.

Torniamo al suo rapporto con la Capitale: come sta Roma oggi?

Roma, oggi, ha toccato probabilmente il punto più basso del suo percorso di abbandono, che ovviamente non è iniziato con l’attuale amministrazione, ma che l’amministrazione Raggi ha accentuato. Non cadono gli alberi per strada per caso, le strade si trasformano in fiumi per coincidenza, né gli autobus vanno a fuoco per incidente. Conosco Roma molto bene per aver frequentato la sua università, ed ho imparato ad amarla perché è una città che ti conquista e ti avvolge per ogni suo aspetto, non solo artistico e religioso. Ha ricchezze che nessun’altra città del mondo può vantare, anche in termini di risorse umane, ma non vengono minimamente utilizzate per la città. Avrebbe bisogno insomma di quello che è stato fatto a Lecce, ovviamente moltiplicato per mille. Mi rendo conto del fatto che gestire una città come Roma è come gestire tre ministeri insieme, ma le risorse ci sono, e ci vorrebbe un’amministrazione capace di assumersi la responsabilità politica delle scelte: una gestione para-commissariale, nella sostanza. E poi mettere sul mercato tutte le municipalizzate. Perché a Lecce la differenziata funziona e a Roma no? E non dico in periferia, ma in via del Corso, dove ancor oggi ci sono i cumuli di spazzature. Roma deve riscoprire la sua vocazione e missione: non si diventa la città più importante del mondo per caso, ma ci si può dimenticare di esserlo, per scarsa autostima e cupio dissolvi. Esattamente il contrario del modello Veneto, all’insegna dello slogan “che me frega?”.

E l’Italia?

Da tempo la sociologia più accorta che studia il Paese lo descrive come un insieme di “coriandoli rancorosi”. E se alcune forze politiche ricevono un consenso così ampio pur senza contare su personaggi di particolare spessore non dipende da fattori imponderabili, ma da cause precise, non ultima quella di aver assecondato questo elettorato rancoroso. Quando un’élite predica contro le élite non deve poi meravigliarsi se al momento delle elezioni viene eliminata. Perché è vero che con il rancore non si costruisce nulla, ma è vero anche che demonizzare poi le forze politiche che per comodità vengono marchiate come populiste, senza comprendere le ragioni del loro successo, non porta a nulla. Mettere in copertina la foto di uno dei due vicepremier con sotto la scritta “vade retro”, come ha fatto un settimanale di area cattolica qualche mese fa, vuol dire precludersi la possibilità di capire perché quel personaggio cresca nei consensi. E questo non significa avere Salvini in simpatia, ma, appunto, cogliere il perché di certi fenomeni.

Invece...

Invece questa tendenza a non capire interessa tutti, anche i critici del cosiddetto populismo. Facciamo un esempio: qualche giorno fa è stato approvato definitivamente il cosiddetto “Decreto sicurezza e immigrazione”, e su questo abbiamo registrato la protesta di realtà associative che minacciano al riguardo la disobbedienza civile. Ho letto per intero quel decreto: un centinaio di pagine che riguardano ambiti molto vari e non ci ho trovato nulla di così sconvolgente, ma proposte di assoluto buonsenso, e alcune necessarie. La mia impressione, insomma, è che spesso ci si arrocchi su posizioni critiche senza conoscere la sostanza delle cose. Con lo stesso distacco aggiungo che non condivido invece la riforma della legittima difesa in discussione, ma - tornando al quadro generale - uno dei problemi di oggi è che le cosiddette élite ignorino le esigenze della gente. Mentre i cosiddetti populisti le conoscono benissimo, ma non hanno le risposte adeguate.

L’ha nominata lei, parliamone: legittima difesa, come regolarsi?

Partiamo dalla cronaca. La legittima difesa è invocata anche e soprattutto nel caso di furti in abitazioni che spesso degenerano. Prima considerazione: la gran parte dei procedimenti penali contro persone che si sono difese, appunto, si concludono con l’assoluzione delle stesse. Ma non è una constatazione consolante, perché l’assoluzione arriva dopo troppi anni, e spesso quando i tre gradi del giudizio hanno distrutto quelle persone, nell’equilibrio e nel portafoglio. Si può dunque scrivere la nuova norma in rime baciate, ma un giudice e un processo ci saranno comunque, dunque anche il relativo trauma. La questione, dunque, va posta su un altro piano, ed è una cosa di cui non parla nessuno:  sono anni, ormai, che in Italia i furti non sono più perseguiti. Non si tratta quindi di un problema di sicurezza, ma di giustizia: se il maresciallo del carabinieri sa in anticipo che le sue indagini finiranno in un cassetto che non si aprirà mai, perché dovrebbe indagare? E perché dovrebbe spingere le vittime a denunciare, se poi quando si arriva a sentenza - laddove non operi la prescrizione - le pene per chi delinque sono irrisorie?.

In effetti...

E questa è una tendenza, soprattutto giudiziaria, che ha fatto dell’Italia un paradiso per i ladri, al punto che li importiamo. Non è discriminazione, ma cognizione di causa, visto che in Corte d’Appello a Roma mi sono occupato di penale internazionale, e di sentenze ne ho viste: se proprio gli va male, il ladro rumeno, in Italia, prende tre mesi di galera laddove nel suo Paese si beccherebbe almeno tre anni. E allora perché mai limitare la propria attività professionale? La magistratura è chiamata ad assumersi la responsabilità di considerare il furto come lo considera il codice penale. Evitando poi che la gente si faccia giustizia da sola e riducendo le occasioni di aggressione. Un fatto elementare, ma che in Italia, dove la giustizia è all’avanguardia sul fronte della lotta al terrorismo e alla mafia, non si comprende, e non si capisce perché.

Perché, appunto? Un’idea se la sarà fatta.

Il motivo potrebbe essere perché per un furto non si può fare una conferenza stampa. E lo dico da magistrato in attività.

E motivi ideologici?

Qualcuno forse, ma credo siano casi isolati, potrebbe ragionare ancora in base a canoni vetero-marxisti chiamando in causa Robin Hood, ma non credo che questo possa essere il motivo principale di questo fenomeno. Più facile pensare che, siccome le indagini comportano tempo e fatica, si preferisca andare sui giornali per cose eclatanti.

Aiuto alla Chiesa che soffre: cos’è e come funziona.

Aiuto alla Chiesa che soffre si occupa di tutto ciò che nel mondo viola la libertà religiosa e di chi viene perseguitato a motivo della sua fede, quindi non solo dei cristiani ma anche, per esempio, dei musulmani che in India subiscono persecuzioni indicibili da parte degli indù, dei Rohingya in Myanmar - l’ex Birmania - e via dicendo. Poiché però l’80 per cento dei perseguitati a causa della confessione religiosa sono cristiani, ciò spiega perché gran parte delle nostre attività riguardi i cristiani, ma non è una scelta esclusiva. Giorni fa è stato pubblicato il nostro Rapporto biennale sulla libertà religiosa nel mondo: mille pagine con schede su tutti i Paesi del pianeta, compresi San Marino e Andorra... e poi le nostre grandi campagne tematiche. Da tempo, per esempio, ci occupiamo del caso di Asia Bibi, e abbiamo ospitato da noi a Roma marito e figlio di lei; abbiamo illuminato di rosso il Colosseo, ma anche Westminster Abbey, la Sagrada Familia, Montmartre, il Cristo di Rio. Abbiamo 23 sedi nazionali, facciamo informazione e raccogliamo fondi in tutto il mondo per poi inviarli alla nostra sede di Francoforte, dove giungono le richieste di aiuto delle diocesi e, appunto, le offerte dei nostri benefattori, 130 milioni di euro annui in media da tutto il mondo che poi redistribuiamo secondo un ordine di priorità.

Su quale fronte siete impegnati in questo periodo?

Nella ricostruzione delle case di Mosul, dove nell’agosto 2014, a fronte dell’avanzata dello Stato Islamico, i cristiani sono stati costretti a scappare a Ninive. Poi lo Stato Islamico ha capitolato, ma nel frattempo aveva distrutto tutto.... si fa presto a dire “Aiutiamoli a casa loro”, perché il presupposto è che una casa ci sia. Stiamo quindi lavorando per sostenere chi vuole rimanere lì. Abbiamo restituito la casa a quasi 41mila cristiani, ma dobbiamo arrivare a 100mila, fatto importante per non privare quell’area della presenza dei cristiani, che stanno abbandonando un po’ tutto il Medio Oriente... ci occupiamo però anche di altri casi, tipo dotare di un trattore il sacerdote che deve attraversare certe zone dell’Africa per andare a celebrare la messa, della costruzione di chiese, di borse di studio per seminaristi che arrivano a Roma da aree di persecuzione... Insomma, aiuto concreto.

Per concludere: cos’è per lei la fede?

La sua domanda è astratta: quella corretta è “Che posto ha Cristo nella tua vita?”, perché per il cristiano la fede non è un concetto ma una Persona. La presenza di Cristo nella nostra vita dovrebbe essere un fatto fisico, materiale, quasi carnale. Quel grande poeta che è Davide Rondoni ha pubblicato di recente un libro sulla vita di Gesù che ti fa attraversare i Vangeli come se ci stessi dentro, ascoltando gli odori, sentendo la polvere che entra negli occhi e nelle narici, e alla fine cogliendo la dimensione incarnata di Dio. Ecco, la presenza di Cristo deve essere questo: non qualcosa di astratto cui dedicare cinque minuti al giorno, come si fa con le previsioni del tempo per capire se si debba prendere un ombrello, ma Qualcuno con cui avere a che dire e a che fare durante la giornata. Una persona cui rivolgersi, perché Lui c’è, e quando sembra che non ci sia è solo perché sei distratto.

 

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