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La fortezza ha a che fare con la responsabilità delle proprie azioni e, di più, con il coraggio di non mollare quando una situazione contraria potrebbe fornire un alibi comodo per la rinuncia.

 

 

La fortezza ha anche a che fare con la resistenza alle tentazioni, con la scelta di non esporsi avventatamente a qualcosa cui non si sa resistere: ecco allora la fortezza dell’eroe greco dal multiforme ingegno, il quale, consapevole delle proprie debolezze, si fa legare all’albero maestro della nave per non cedere all’incanto delle sirene.

Fortezza significa farsi avanti ma anche fare un passo indietro, se la circostanza lo richiede.

La nostra presenza nel mondo digitale ha a che fare necessariamente con l’esposizione. Una corretta esposizione, responsabile e misurata, è propria di chi esercita la virtù della fortezza.

C’è chi usa lo schermo come scudo, per schermarsi il volto, per lanciare la pietra e nascondere la mano.

Il rispetto dell’altro e la tutela dei suoi diritti spesso richiedono atti di coraggio, piccoli o grandi: la parola d’ordine della fortezza sembra essere I care, come ancora oggi è scritto su una parete della canonica di Barbiana (P. C. Rivoltella, 2015, p.46)

È il caso, per esempio, dei cyberbulli che, in virtù del fatto di non vedere in faccia la loro vittima né gli effetti devastanti delle proprie violenze, si sentono meno in colpa e meno responsabili. La rete dà la parola a tutti, ma proprio per questo regala impunemente l’anonimato tipico della massa. Ecco allora che un cyberbullo, essendo la portata del suo atto ampia e diffusa, attiva un meccanismo di disimpegno morale: si sente sollevato dalla sua responsabilità individuale perché alla fine ha solo postato un messaggio che gli era arrivato. E lo stesso vale per gli omertosi che fingono di non sapere e di non vedere, che girano la faccia dall’altra parte. Lo schermo non deve schermare i violenti. La rete modifica e ricodifica certi comportamenti omertosi che sembravano cristallizzati.

Metterci la faccia, nella strategia di web marketing, è diventato fondamentale perché nel mare magnum delle offerte e delle proposte, l’unico modo per distinguersi dagli altri è essere identificati e riconoscibili: il proprietario di un negozio o di una azienda che vuole far conoscere la propria attività deve divenirne il testimone, vendere un po’ anche la sua immagine. Deve insomma esporsi se vuole essere credibile.

In questa accezione “metterci la faccia” è sinonimo di impegno e affidabilità, anche perché niente vale come un volto e una voce per rendere efficace uno storytelling. Alcuni social nascono specificamente per metterci la faccia: è il caso di Instagram, la cui popolarità è aumentata da quando, nel 2013, è stato acquistato da Facebook: consente di condividere storie ed esperienze per immagini, ma soprattutto di seguire influencer e personaggi alla moda. Ovviamente a questo punto si apre l’annoso problema: che faccia esponiamo in Instagram e negli altri social? È la nostra vera faccia? Questa è un’altra storia, che riguarda la nostra identità nei social.

La vita degli italiani è cambiata: è iniziata una lunga quarantena, un periodo di lockdown. La vita privata e pubblica dei cittadini si è spostata ancora più massicciamente sul web, talvolta con fenomeni di generosa sovraesposizione. Se la cultura digitale ci ha abituato alla comunicazione demediata, l’emergenza sanitaria legata al Covid-19 ne ha segnato l’indiscusso trionfo. In un primo momento, la forzata reclusione ha riportato alla ribalta tradizionali forme di scambio da un balcone all’altro, ma il fenomeno è durato pochi giorni; poi è stato tutto un pullulare di webinar e podcast, concerti via Skype, riunioni familiari su Meet o Zoom. La rete è diventata una vera e propria infrastruttura per qualunque nostra attività e la casa il suo palcoscenico. Persino la presenza fisica dei personaggi pubblici in tv si è trasformata in casalinghi collegamenti in video call: ecco allora l’esposizione di tutte le case di cantanti, scrittori, uomini politici, medici e scienziati, con l’immancabile sfondo di librerie ben fornite. È caduto un ulteriore muro tra pubblico e privato, e la dimensione intima della casa si è trovata completamente esposta.

Anche in questa circostanza, in una forma più accentuata ma certo non inedita, tutti hanno scoperto di avere qualcosa da dire agli altri, non fosse altro che uno slogan, un hashtag ripetuto infinite volte come un mantra o una giaculatoria: #iorestoacasa.

Siamo sempre più distanti dall’antico adagio epicureo "vivi nascostamente": vogliamo esporci, vogliamo essere sicuri di esserci, fosse anche solo per una manciata di visualizzazioni.

Allora la fortezza può venirci in soccorso restituendoci il coraggio di parlare, quando la nostra parola è utile e generosa, ma anche il coraggio di essere invisibili, di rinunciare alla fama di 15 minuti.

Il web 2.0 ci trasforma in autori, microblogger, senza richiederci alcuna professionalità specifica. In questo modo ci dà uno spazio in cui esporci ed esibirci almeno di fronte al piccolo pubblico dei nostri followers. Ma ci espone anche alle sirene di Ulisse, a tentazioni ben più materiali del collezionare like e recensioni positive.

Ci limitiamo insomma alla tentazione di piaceri innocenti come biscotti. Quando navighiamo e visitiamo un sito web si formano i cookie, ovvero file utilizzati per memorizzare bit di informazioni specifiche riguardanti le interazioni tra il pc e il sito web. Allora la resistenza è un’altra importante dimensione della fortezza.

 

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