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È avvenuto in un caldo pomeriggio di fine agosto il mio ultimo incontro con padre Salvatore. Passai, come al solito, dal ritiro dei Passionisti a salutarlo, prima dell’ennesima ripartenza per Milano. Mi accolse con la perenne giovialità che lo contraddistingueva, facendomi coraggio.

Aveva sempre capito lui il dolore dell’emigrante, la sofferenza di chi ama visceralmente la propria terra e vorrebbe spendersi per essa ma è costretto a separarsene per avere di che vivere. Anche quella volta mi invitò a leggere in senso soprannaturale le cose. Gli promisi che ci saremmo rivisti per gli auguri di Natale. Certo non immaginavo che quel momento era il nostro congedo. Eppure, a ripensarci ora, è come se tutto fosse più chiaro: padre Salvatore era pronto per il cielo, per la realtà alla quale apparteneva.

Con lo scorrere del tempo, era quasi inevitabile che il suo fisico andasse incontro a diversi malanni. Ma più le sue forze declinavano, più il suo spirito sapeva conservarsi brioso e colmo di un’amabile esuberanza. Negli ultimi tempi poi era come se la sua anima fosse divenuta più luminosa e potente, dominando di fatto su un corpo ormai debole. Si poteva cogliere ciò, in maniera nitida, anche solo osservandolo, mentre pregava il rosario o confessava i fedeli.

Me ne accorsi un giorno, entrando in biblioteca. Era seduto lì, con la testa calva aureolata di pochi capelli bianchi, a leggere non so cosa, aguzzando l’occhio nella lente d’ingrandimento. Conosceva molto bene il mio profondo amore per il Tardoantico, per l’Oriente bizantino, per San Crisostomo. Anzi, in certe occasioni, non mancava di invitarmi ad allargare gli orizzonti, magari cogliendo una segreta traccia di continuità tra la sapienza dei Padri del deserto ed il carisma dell’Ordine Passionista. Ma quella volta fu diverso.

Da poco aveva terminato la sua ultima fatica, l’accattivante libro Comunicando la gioia del Vangelo, e mi raccontò la sua vocazione. Quando, poco più che un bambino, una mattina aveva inforcato la bicicletta e pedalato a tutta velocità da Campi a Novoli per bussare alle porte del convento e dichiarare la sua grande risoluzione. “Ogghiu cu me fazzu papa!” (“Voglio diventare monaco!”), proclamò a chi venne ad aprirgli. “Ah, bravu!”, fu la risposta che ottenne. E finì lì tutto il discernimento vocazionale. Questa purezza gagliarda, questa semplicità rampante non era mai venuta meno, neanche quando quel bambino aveva compiuto più di settanta anni.

Sì, padre Salvatore aveva realizzato il suo sogno: vestirsi del meraviglioso abito nero di San Paolo della Croce, appuntarsi sul petto il cuore con la croce e divenire un apostolo di Cristo. Gliela si leggeva in viso la contentezza mentre rievocava le missioni in giro per la Puglia o il suo predicare a Villa Convento per la festa di Sant’Antonio. Lui, che sapeva coniugare nel proprio essere l’intraprendenza campiota all’ardore novolese, con la sua testimonianza, ha deposto davvero nella nostra terra un… seme raro, il seme preziosissimo della fede nel Risorto.    

 

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