Ah, se queste pietre potessero parlare! O come direbbe qualcuno: "Quae lapis loquor accipe ni lapis es", traduzione per i non latinofoni: "Se non sei pietra, accetta ciò che io pietra ti dico".
E che cosa avrebbe da dire o raccontare questa pietra leccese? Ma soprattutto chi è che vuole raccontare qualcosa? In questo caso si tratta di Sua Altezza (nel vero senso della parola) il campanile di Piazza Duomo a Lecce. Questa sua voglia di parlare, la tiene incisa nella epigrafe nel suo piano terra, proprio sopra la porta di ingresso; un'epigrafe dettata Giovanni Camillo Palma, autore anche di quelle porte nei piani superiori nella facciata sul Cortile del vescovo, o come la si chiama oggi, Piazza Duomo.
Ma cosa avrà da dire, da raccontare?
"Tanto! Avrei da dire tantissimo, particolarmente ora che sono uscito da questa gabbia, un blocco o come dite voi, da una specie di lockdown dovuto a tutte quelle impalcature che mi hanno costretta alla distanza dalla mia gente, da tutti coloro che entrando in piazza restavano stupiti a bocca aperta per la bellezza della piazza e, modestamente, dalla mia maestosità.
Io da qui ne ho viste tante di cose, sia vicine che lontane, sia di persone, fedeli e turisti, che sono ai miei piedi, sia di marinai e naviganti che solcano il mare adriatico e perfino lo Jonio. Io, non lo dico per vanto, sono stato tra i primi a gridare: ‘Mamma, li turchi!’. Mi ricordo, e questo lo dico con sollievo, quando mi usavano come torre di avvistamento i francesi, quelli che avevano occupato il seminario agli inizi dell'800, mi maltrattavano continuamente. Tenete presente, tanto per darvi un'idea, che quando lasciarono il seminario fu usato più denaro di quanto fu speso per costruirlo. Ma prima di andare avanti è caso di presentarmi meglio.
Sono ‘il’ campanile di Lecce, le altre sono solo torri campanarie. Sono alto circa 70 metri, sono uno dei più alti in Europa. In realtà sono uno degli ultimi arrivati in questa bella piazza. Dopo di me è arrivato il seminario (1694-1709). La mia gestazione è durata molto, dal 1661 al 1682 e devo tutto a mio padre Giuseppe Zimbalo, o come lo chiamavano tutti Zimbalieddhu (Zimbalo piccolo), e italianizzato Zingarello, giusto per distinguerlo da altri grandi maestri, archistar del barocco, come il padre e il nonno. Anche se lo devo ammettere una strana firma, proprio sotto il mio cappello in maiolica, riporta il nome di un certo M(aestro) Trevisi, che sinceramente non ricordo chi fosse. Già, il mio cappello è quella cupola in alto, lucente e policroma sormontata dal nostro caro Sant’Oronzo che ruota inseguendo il vento del Salento. Lui sì, che dai suoi quasi 3 metri vede e provvede qui tutti i salentini. Sotto, tra la base e il mio cappello, ci sono tre piani telescopici, ognuno, come usanza dell’epoca, è sotto la protezione celeste. Il primo piano è dedicato all'Assunta, come la cattedrale cui sono legato, il secondo ai santi protettori di Oronzo, Giusto e Fortunato e il terzo a quella intrusa di Santa Irene, colei che voleva togliere il posto d'onore nel cuore dei leccesi ai 3 martiri locali. E questo solo perché sponsorizzata da quei tanti ordini religiosi che nel periodo post-tridentino avevano occupato la città. Immaginate che prima che mons. Pappacoda desse il mandato a mio padre di costruirmi, esisteva un altro campanile che si trovava all'angolo della vecchia cattedrale, quella di valuta dal vescovo Formoso Lubelli nel 1114. Proprio come la vedete nelle illustrazioni presenti nella Lecce sacra dell’Infantino paroco (sic.) di Santa Maria della Luce. In realtà più che campanile, quella era una torre campanaria, anche quella molto alta, di quattro piani che finiva con una corona merlata. Anche da lì, scriveva sempre paroco (sic.) di Santa Maria della Luce, la sentinella ‘scoprendo ambi i mari potea la città esser’avvisata d’ogni sospetto d’armata nemica, e d’ogni altro sinistro avvenimento’.
Goffredo d'Altavilla la fece costruire uguale a quella in cui S. Irene fu rinchiusa all'età di 6 anni dal padre a Tessalonica. Ma quella torre di Sant’Irene non durò a lungo. Una prima volta, era 1230, ho saputo che le crollò il tetto e subito ricostruito tale e quale a quello precedente. Nonostante tutto rimase fragile a tal punto che nel 1574 l'hanno dovuta demolire, per evitare che cadesse sulla cattedrale. Qualcuno dice, perfino, che è crollata veramente. Vai a capire quale sia la verità. Tu pensa che di quella torre qualcuno per un certo periodo volle farne il simbolo della città al posto della lupa. Se non ci credete, andate nella cripta della ‘mia’ cattedrale e su due capitelli, l'uno di fronte all'altro, troverete sia la torre di Sant’Irene, sia la lupa sotto il leccio, anche se la lupa sta andando dalla parte sbagliata, forse aveva capito che non era aria. Un esempio di quello stemma è anche conservato nel vostro Museo intitolato ad un patriota risorgimentale cavallinese. A far tornare il sugli scudi della città la lupa e il leccio fu la necessità di garantire la permanenza dei privilegi garantiti a Lecce dai ‘Padroni napoletani’, anche se, secondo il gossip del tempo, furono i leccesi a non fidarsi più di quella Santa che ha sempre la città in mano o, come si vede in alcune stampe (Breviarium Liciense della Biblioteca Innocenziana) doveva proteggere la sua torre e i leccesi dai fulmini e, guarda caso, proprio la ‘sua’ torre stava crollando a causa delle saette. Poi, vuoi Sant'Oronzo, che ci sapeva fare con i terremoti, essendo lui ‘tra i santuni e che fa miracoli a miei miliuni’, come riporta una tela di Santa Croce, vuoi che c’era la necessità di ‘imporre’ il potere del clero diocesano su quello regolare, Sant’Oronzo nel 1656 prese il posto di Santa Irene come protettore della città definitivamente, il posto sul mio cappello e sulla colonna. Si impose di fatto sul fano e sul pro-fano.
Ma ora che sono di nuovo spacchettato anche per voi sarà possibile vedere ‘con gli occhi’ di Sant'Oronzo, anche voi potrete salire dalle mie viscere con un semplice ‘Up’. Potrete vedere quello che le sentinelle di un tempo vedevano e, chissà, forse nelle fresche giornate di tramontana, potrete vedere perfino cosa bolle in pentola a Valona o sull’isola di Fano”.
A buoni lettori... Parola di Sua Altezza.