Tra gli altri volatili il cui nome non si pronunciava liberamente, e non solo per il funebre piumaggio nero e per il gracchiante verso, vi era la gazza, pica o ciola, cola o mita. I latini chiamavano la gazza pica, i greci chitta.
Col termine pica, in senso figurato, si indicano gli organi genitali maschili, da cui lo scioglilingua riferito al padre che da solo è in grado di nutrire numerosi figli i quali non saranno in grado di assicurargli sostentamento durante la sua vecchiaia: nna pica tese a mangiare a centu piche, centu piche nu fora capaci cu desera a mangiare a nna pica. La gazza piccola, detta picarella o picarèddhra, diventava parafrasi di piccolo membro maschile; e probabilmente deriva da questo significato il soprannome Picarieddhru registrato a Novoli, mentre Picariello è attestato come cognome nel vasto Salento. Da quando la parola pica assunse significato osceno, la gazza fu comunemente indicata col termine mita, che sopravvive come sopravvive il sintagma desueto mita panzanara per indicare una donna chiacchierona, che racconta frottole, per quanto anche pica era usato come soprannome rivolto bonariamente a “donna ciarliera”, mentre col termine chitta, si additano due donne che hanno litigato gridando appunto come due gazze.
Mita ecchia nu’ trase ‘ncaggiula, gazza vecchia non entra in gabbia; come dire: una volta capita il pazzo.
Per approfondire:
R. Barletta, Cane nu mangia cane. Bestiario popolare salentino, Edizioni Grifo, 2013.